Appunti sul disegno, 3

Cesare Biratoni

n°11, dicembre 2021

 

Cose che accomunano il disegnare (per il disegnare) con il camminare: due attività apparentemente marginali; la prima quando non progetta, non è funzionale alla costruzione di qualcosa, la seconda perché si realizza pericolosamente ai bordi delle nostre strade eccessivamente trafficate[1].

 

1) entrambe richiedono un rallentamento e un tempo più lungo di quello che siamo soliti usare per una qualsiasi delle attività che svolgiamo: andare in macchina, guardare un film, consumare un pranzo; 

2) Il camminare e il disegnare possiedono entrambe una linearità: i punti infiniti che costituiscono la linea in geometria potrebbero equivalere ai passi, che a loro volta sono il risultato di una serie di infinitesimali movimenti in avanti; 

3) Sia nel caso dei passi che della linea disegnata più che il loro essere un “percorso”, assume valore quello che si trova fuori di essa: lo spazio esterno o interno alla forma o il paesaggio che si dispiega intorno alla camminata; 

4) Sia nel camminare che nel disegnare si valorizza la sedimentazione dell'esperienza: ridisegnando, cancellando, rifacendo, ritornando sui propri passi, percorrendo sempre lo stesso tratto (anche la parola “tratto” assume in questo caso una doppia valenza).

 

[1] Camminare come attività marginale (visivamente il marciapiedi): Famosa citazione di P. Valery su Degas: non si è veramente visto qualcosa se non si è provato a disegnarla, si trasforma in: non si conosce mai veramente una strada se non la si è percorsa camminando (più volte). 

 

Stanley Brouwn, This way brouwn, 1961


L'uragano dedicò tutto sé stesso all'isola deserta e fu subito amore

Pierluigi Fresia

n°11, dicembre 2021

 

L'uragano dedicò tutto sé stesso all'isola deserta e fu subito amore, 2021, stampa su carta Hahnemühle FineArt 45x43 cm, edizione di 3+1PdA.


Bruna storia d’adamantino incanto (libro in tre pagine)

Giancarlo Norese

n°11, dicembre 2021

La scena si svolge a letto. Pròtago deve scrivere con urgenza un testo per un blog ma ha perso il tempo libero e deve impegnare quello schiavo, dedicato al sonno, per non nutrire eccessivamente il ritardo. Durante il dormiveglia invoca l’aiuto del fido Dimonio, consapevole che tutti gli appunti sono conservati nel computer (spento) sul tavolo accanto. Utilizza pertanto il nuovo telefonino appoggiato a portata di mano. 

 

Download
Bruna storia d’adamantino incanto (libro in tre pagine)
Giancarlo Norese.pdf
Documento Adobe Acrobat 31.2 KB

Leningrado

Nazzareno Guglielmi

n°11, dicembre 2021

 

Leningrado,  2020, grafite su carta Fabriano ruvida 200 gr e collage, 48x33 cm


L’opera d’arte tra frequentazione e pornografia (di musei, trasparenze, opacità e passi lenti)

Ermanno Cristini

n°10, novembre 2021

 

La vita dell’opera d’arte, in assoluto, si identifica con quella che potremmo definire la sua frequentazione. Frequentazione anzitutto da parte di chi la realizza, ma non meno da parte di chi ne fruisce.

Come dice Giulio Paolini, l’opera, una volta brevemente intrattenuta nello studio dal suo autore, attende di essere accompagnata “fuori”, per compiersi attraverso gli occhi di chi la guarda[1].

Peraltro già Duchamp notava che “sont les regardeurs qui font les tableaux”)[2], tratteggiando così una visione attiva del fruitore in quanto autore del tutto simile a quella che Umberto Eco definirà, molto più tardi, e nel contesto di una pragmatica del testo, "atto di cooperazione interpretativa". E cioè: l’iniziativa dell’interprete è determinante nella generazione del senso poiché è condizione della vita dell’opera in quanto processo di “semiosi illimitata”[3].

La “forma come formatività”, ovvero come operare, di derivazione pareysoniana[4], riguarda così non il solo autore nel rapporto con la sua materia bensì la coppia autore-interprete con la materia assunta a ruolo di catalizzatore. Si tratta di una sorta di ménage à trois i cui termini sono distinguibili ma non distinti anche perché in un’epoca in cui il pensiero scientifico ci ha insegnato che non esistono più le cose ma “ogni cosa è solo ciò che si rispecchia in altre”[5] non possiamo considerare anche l’oggetto d’arte se non in una prospettiva relazionale.

Entro tale ménage si compie il sottile equilibrio tra i diritti dell’opera in quanto testo e quelli di chi la “scrive” sia perché autore che perché interprete. Sottile equilibrio che richiede una “cura” affinché i diritti del testo non siano travisati da forme di scrittura apocrifa che lo condannino all’insignificanza.

La nozione di “cura” disegna il perimetro dei limiti dell’interpretazione e ne ispira la vocazione ermeneutica ed esegetica a un tempo[6]. Leggere un testo, un’opera, è dunque scriverlo/a in condizioni di ascolto.

In linea di principio la casa del collezionista, al pari della casa dell’artista, è la dimora ottimale per l’opera perché la sua vita si intreccia con la vita dell’interprete il quale per interpretarla la “frequenta” nel senso stretto del termine. Da questo punto di vista la casa del collezionista / artista equivale al Museo, inteso, sempre con Paolini, come luogo di clausura: un “dentro” che costituisce il “fuori” naturale per l’opera[7]. La clausura è lo spazio della cura perché garantisce il tempo della “frequentazione”. Idealmente nel Museo cammino nell’intervallo dei miei passi, mi arresto e vedo, e rivedo, e rivedendo guardo, con quella concessione all’indugiare che sola mi consente di accedere al senso.

È lo stare appartati ciò che offre all’opera la distanza spazio-temporale dalle “cose del mondo” necessaria al suo compimento, fuori dalla dimensione della cronaca e, proprio per questo, a garanzia di una presa sul presente.

Ma come nota lo stesso Paolini l’accoglienza che oggi il museo è tenuto a offrire è quasi “un ritrovo, una pausa per turisti e famiglie”[8]. Il cammino lascia spazio al passaggio e il guardare al puro vedere, quel vedere in cui si estingue anche il sorriso della Gioconda[9]. Nulla di “democratico” in tutto ciò; nulla che corrisponda ad una “democratizzazione della cultura”, piuttosto solo un’estensione dell’entertainment.

Nel turismo culturale al passeggiare si sostituisce il passare ma laddove l’uno presuppone il tempo rallentato della scoperta e dunque della conoscenza, l’altro comporta il tempo accelerato della pura informazione. Tanto l’uno è selettivo e narrativo, quanto l’altro è esclusivamente additivo.

I processi che hanno aperto i musei a logiche marketing oriented  interessate sostanzialmente al riscontro quantitativo della fruizione sono solo l’anticipazione di un “fuori” per l’opera che oggi trova la sua piena espressione nelle forme di esposizione virtuale che la pandemia ha fatto emergere. C’è una corrispondenza tra il “passare” come condizione fruitiva del turismo museale e lo “scorrere” quale gesto proprio della fruizione in Instagram: in entrambi i casi la fruizione non è interpretativa ma “pornografica”. Byung Chul Han[10] parla di pornografia a proposito della società della trasparenza, disegnata dai nuovi media. Lo “scorrere” è pornografico perché rende tutto a portata di mano e preclude la ricchezza della pausa opponendo l’additivo al selettivo.

Se così è si impongono allora alcune domande. Il carattere rivoluzionario dell’opera d’arte può darsi nella compromissione con il suo destino pornografico oppure deve essere cercato in forme del suo “sottrarsi”, se si vuole, del suo “pudore”?

Ovvero, c’è spazio nella dimensione additiva dello “scroll” per il “pungiglione” di Wind[11] oppure esso può essere ritrovato solo nell’opacità della durata che sta tra i passi lenti della "frequentazione"?  E ancora: fuori da una visione apocalittica o integrata, inevitabilmente manichea, come si pone il tema della messa in forma nell’epoca in cui il “contesto” orienta i meccanismi fruitivi ad una sorta di scrittura veloce, inesorabilmente collocata lungo il bordo insidioso dell’insignificanza?

 

[1] Giulio Paolini, Quattro passi. Nel museo senza muse, Torino, Einaudi, 2006

“Dunque, se posso concludere: l’opera è quell’insieme di opere che si offrono in esposizione. Di più: è l’esposizione, essa stessa e in quanto tale, a offrirsi come opera”

[2] In M. Sanouillet, (dir.), Marcel Duchamp. Duchamp du signe, Paris, Flammarion, 1975

[3] Vedi per es. Umberto Eco, Lector in Fabula, Milano Bompiani, !979; I limiti dell’interpretazione, Milano Bompiani, 1990

[4] Luigi Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, (1954), Firenze, Sansoni, 1974

[5] Carlo Rovelli, Helgoland, Milano, Adelphi, 2020

[6] Anche Danto, seppur in termini diversi, ritiene fondativo per l’opera l’equilibrio tra due fattori: l’interpretazione, tesa a cogliere il suo aboutness, e l’embodied meaning, il significato incarnato, necessariamente “motivato” dall’aboutness e per il quale Pareyson parlerebbe di contenuto che si fa forma formata. Tale contenuto ovviamente non può essere definito arbitrariamente dal processo di interpretazione pena il mutismo dell’opera. Come dice Umberto Eco il gioco dell’interpretazione presuppone che si sappia stare al gioco.

[7] Giulio Paolini, in Giulio Paolini a Rivoli: una conversazione, a cura di Silvia Bottani, in «Doppiozero», 22 novembre 2020

[8] Giulio Paolini, cit. 2020

[9] “La povera Monna Lisa se n’è andata perché, per quanto meraviglioso possa essere il suo sorriso, è stato visto così tanto che è scomparso.” Cit. in: Calvin Tomkins, Marcel Duchamp. Le interviste pomeridiane, (1964), Milano, Postmedia, 2020

[10] Byung-Chul Han, 2012, La società della trasparenza, Milano, Nottetempo, 2014

[11] Edgar Windt, 1963, Arte e anarchia, Milano, Adelphi, 1968


Capitolo primo

Luisa Turuani

n°10, novembre 2021

 


Cosa possono i nostri corpi

Marco Panizza

n°10, novembre 2021

 

Come posso auspicare un Temenos  e nello stesso tempo debordare?

Pietro il Rosso, la scimmia protagonista del Discorso all’Accademia di Kafka cerca una modalità per scampare alla gabbia e allo zoo secondo un destino scritto dai suoi cacciatori e la trova nell’imitare gli uomini. Temenos ( termine greco che utilizzo nell’accezione di recinto sacro) è il nome che diedi anni fa al mio gruppo di teatro per ribadire una necessità di distacco, protezione nei confronti di un mondo congelato sostanzialmente ostile a pratiche di ricerca aliene rispetto a certi stereotipi imposti dal mercato.

Pietro il Rosso ci riuscì ma nello stesso tempo confessò che quello che aveva trovato era una via di fuga non la libertà. Col mio teatro cerco di materializzare uno spazio che separa e unisce, un bordo che ponga in stato di barcollamento qualsiasi certezza, a bordo di una zattera sempre in procinto di affondare, uno spazio di profanazione. Uno spazio che si costituisce come margine dell’imprevisto e fucina per l’improvvisazione. Uno spazio dove i corpi sono variopinti, senza anagrafe, senza scuola ma desiderosi di scholé, debordanti di storie singolari che aggrovigliano in uno spazio/tempo gli spettatori. Uno spazio scivoloso per un tempo esatto. Bisogna saper finire al momento giusto se vuoi lasciare nella memoria di chi partecipa il ricordo di una sana quanto alla fine superflua recinzione e sentire la bellezza di aver vissuto e condiviso un medesimo bordo/ritmo, inutilmente e felicemente debordante. È questa la libertà?


L’azione in un luogo è determinante più del luogo stesso, soprattutto se i suoi confini sono stati disegnati da stupidi cartografi

Alessio Larocchi

n°9, ottobre 2021

 

...il bordo, lo abito per personale inclinazione e perché mi ci sono trovato. 

Tuttavia per fugare ogni equivoco di fatalistica predestinazione o pigrizia speculativa, distinguo ‘bordo’ nella duplice accezione di ‘bordo istituzionale’ e di ‘orizzonte di conoscenza’...

 

Download
L’azione in un luogo è determinante più del luogo stesso, soprattutto se i suoi confini sono stati disegnati da stupidi cartografi
Alessio Larocchi.pdf
Documento Adobe Acrobat 153.7 KB

Per un dizionario dei confini letterari

Roberto Limonta

n°9, ottobre 2021

 

Dalla parte di Swann o dalla parte dei Guermantes. Ma anche dalla parte di Meseglise. In ogni caso, du côté de chez Proust.

 

I confini mobili dei movimenti della tigre, nella tenuta di don Nicanor a Los Horneros (Julio Cortázar, Bestiario).

 

Lo spazio minimale del diaframma, soglia bifronte resa abitabile dalle parole: Quando Gregor Samsa una mattina nel suo letto si svegliò da sogni inquieti, si ritrovò trasformato in un immane insetto. Dottor Jekyll e Mr. Hyde, Dorian Gray e il suo ritratto etc.

 

Chatwin: viaggiare, sempre e ovunque, arrivare alla fine dei mondi solo per abbandonarli, per dimostrare che i confini non ci sono, non possono, non devono esserci. Lepri in una gara di mezzofondo, che trascinano al traguardo per poi svanire. Eppure volti, luoghi, istanti confinati nei taccuini neri Moleskine…

 

I tartari di Buzzati, bordo solitario e polveroso, orizzonte del tempo che dilata la soglia, la rende scettica.

 

Il libro di sabbia, infinito, senza fine o inizio. Alla pagina 40.514 succede la 999, solo per una volta e poi mai più.

 

Geografie dell’immaginario: Atlantide e Utopia, il cimitero marino di Valery, Flatlandia, la Montagna Incantata, Macondo e le terre della Mamá Grande, Long time ago in a galaxy far, far away.  

 

Cosa ci faccio qui? (Arthur Rimbaud ad Harar, dicembre 1880)


Caro G.

Marta Orsola Sironi

n°9, ottobre 2021

 

ti scrivo da un tavolino del Bar Aurora, da quell’angolo del cortile che dà su Via Padova. Milano è calda e appiccicosa e un gruppo di uomini si è appena levato per rintanarsi al riparo dell’aria condizionata. Mi portano uno spritz, il solito mio, rigorosamente Aperol in bicchiere alto e squadrato. Altri tre uomini parlano arabo, fanno rumore ma non riescono a sovrapporsi al flusso dei miei pensieri. Oggi va così: a quanto pare la fiammella latente si è aizzata d’impeto e le parole mi scappano di mano. Per poterle trattenere tutte devo necessariamente scriverti a computer – cosa che odio – ma le mie penne buone sono rimaste sulla tua scrivania e mi tocca sperare che la batteria regga.

Ho pensato al soggetto nomade e al mio bisogno di mettere un punto a tutte quelle riflessioni informi che mi porto appresso da ormai un decennio...

 

Download
Caro G.
Marta Orsola Sironi.pdf
Documento Adobe Acrobat 84.5 KB

Giovani alleati

Sergia Avveduti

n°9, ottobre 2021

 

Quale immagine diffondere, della propria esistenza nello spazio, in considerazione della

fluttuazione del punto di vista?

I giovani alleati possono ancora dedicare ineffabili sfumature di colore per descrivere l'incerto?

Inseguo l'orizzonte limpido, una forma di finito infinito che cambia la relazione col riflesso delle cose. É un cercare fra natura terrena e natura aerea, un qualcosa che si dispiega nel tempo di uno sguardo lungo e costante come una superficie tensile e aerea dove poter leggere il tutto.

Indovino piccoli buchi tondi come orbite e frammenti di lagune a contatto con  la mutevolezza delle nuvole, con il bagliore specchiante e atmosferico di una realtà non vista che riconosco come un'apparenza leggera che poi scivola via.

La visione ha un potere di sovversione delicato come un frammento smembrato da un luogo di riferimento che reinventa le potenzialità di uno spazio sottile rivolto all'interiorità.

La mia immagine non richiede sforzo, si fa spontaneamente, contiene una complessità secondaria che riguarda l'apparenza delle cose e lo stato dell'essere quasi come stare impreparati in ascolto, in cerca di un pensiero che modella e richiama lo sguardo a scendere in profondità.

E' un invito a pensare e a cercare oltre la realtà forzando il già noto. Ecco che l'esercizio del pensiero  diventa un fare dove la memoria personale si emancipa cercando una nuova dinamica del mondo.

" ... è bianco? giallo? grigio? madreperla? è cenere? è riflesso d'argento? è l'incarnato delle rose?Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure sogno?"  

E' il bagliore del  verde?

Contatto  le impalpabili meteorologie dell'aria e delle nuvole: sono in viaggio o sono in fuga?

 "… risparmiate dalla pioggia più che di un colore preciso, si tratta di un essenza, forse di una materia evanescente che dall'alba al tramonto assume i più strani riflessi grigi, argentei, ... seppia, avorio, madreperla, bianche nuvole che passano lentamente vicino a pallidi giganti rocciosi in silenzio indifferenti per la siderale distanza dell'universo nei confronti delle cose umane.”  …."rocce brave, solide oneste" (Dino Buzzati, Le montagne di vetro,  1956)


L'artista emancipato

Luca Bertolo

n°8, settembre 2021

 

Se un territorio condiviso tra due interlocutori è certamente necessario per ogni forma di comunicazione, non è però detto che autore e lettore debbano condividere anche le finalità del discorso. Pure, questo sembra un prerequisito nel caso di molti interventi critici “impegnati”, in cui l’autore dà per scontato che anche i lettori ritengano necessaria la prospettiva di una critica radicale di sinistra per la formulazione di qualsiasi discorso critico serio. È questa la sensazione che ho provato leggendo l’articolo, peraltro brillante e rigoroso, di Melanie Gilligan, The Beggar’s Pantomime[1], una lettura che mi ha spinto a ripensare all’annosa questione dell’arte impegnata.

 

Partirò da una domanda: è davvero così ovvio che in un’opera artistica o letteraria si debbano ritrovare le convinzioni politiche dell’autore? E se questo non avviene, si tratta di una mancanza dell’opera e/o di un’incoerenza da parte dell’artista? Personalmente, tendo a dare una risposta negativa a entrambe le domande. Il presupposto da cui muovo è il seguente: l’arte, in generale, è una faccenda che trascende necessariamente la volontà dell’artista. Laddove ciò non si verifichi, laddove cioè l’opera non trascende le intenzioni dell’artista, essa si rivela un’illustrazione – più o meno bella, più o meno complessa, più o meno interessante – di alcune idee; ovvero – e qui si chiude il cerchio – essa non funziona in quanto arte. Ovviamente, il rischio dell’illustrazione riguarda idee filosofiche o religiose non meno che idee politiche.

 

La vasta tematica dell’impegno politico in arte, letteratura e teatro ha attraversato il dibattito culturale del XX secolo, vivacizzandolo, nonostante certe derive drammatiche o grottesche. Osservando quell’epoca dal nostro punto di vista, storicamente vantaggioso, ci chiediamo, al di là dei proclami, quali siano state le opere “impegnate” ben riuscite. Ciò che mi sorprende maggiormente non è tanto che tale conteggio restituisca un numero esiguo di nomi, quanto che questo deludente risultato non abbia prodotto, nel tempo, riflessioni generali sul fenomeno, o, se le ha generate, che esse non abbiano avuto la forza di diventare un comune presupposto delle discussioni su arte e letteratura.

 

Bertolt Brecht e Vladimir Majakovskij sono due massimi esempi di connubio riuscito tra arte e impegno politico del secolo scorso. Saper indicare dove risieda la grandezza di questi autori è una faccenda decisamente meno ovvia. Certamente la loro grandezza non si può valutare misurando la quota di impegno (ideologia applicata) che le loro poesie o pezzi teatrali contengono, poiché centinaia o migliaia sono state le opere prodotte da altri scrittori e poeti tanto o più ideologiche delle loro. Piuttosto, avrei la tentazione di dire che l’eroicità di queste due figure culturali sia consistita, al contrario, nell’aver affrontato volontariamente l’ideologia ed esserne usciti parzialmente illesi (il suicidio di Majakovskij non deve farci dimenticare i momenti di precedente entusiasmo). In altre parole, entrambi sono riusciti a intrappolare una parte dell’afflato politico/propagandistico (per sua natura corazzato, oggettivo, dichiarativo, non ambiguo) dentro a un tessuto poetico (per sua natura delicato, espressivo, soggettivo, ambiguo) – un’impresa davvero ardua. Autori grandi, dunque, proprio nell’essere riusciti a fare più e meno di quel che annunciavano i “programmi” da loro sottoscritti. L’ipotesi di un teatro “epico” – in cui lo spettatore mantenga sempre desta la sua capacità critica nei confronti dello spettacolo e della società – non può essere slegata dalla capacità che ebbe Brecht di conservare nel testo un fondo[2] non direttamente convertibile in ideologia (e proprio quest’ultima caratteristica rende conto della sua unicità, nonostante si proponesse, e sia stato adottato, come modello). Dall’altra parte, anche il più diretto e prosaico invito all’azione che Majakovskij ci rivolge da alcune poesie-proclami conserva, nella propria genealogia, un rapporto intimo con la lingua; rapporto che supera ed estende il valore “d’uso” del testo.

 

Ma non si tratta nemmeno solo della volontà di trascendere ideologie o programmi. Se è vero quel che dice il poeta e saggista Iosif Brodskij, che un grande scrittore è qualcuno che prolunga la prospettiva della sensibilità umana, allora questo prolungamento vale anche per lo scrittore stesso. Paradossalmente, l’opera è così il risultato di un atto volontario solo per quel tanto (o poco) che l’autore già sapeva di sapere prima dell’opera, e dunque per la parte meno innovativa di essa. Il linguaggio, come somma di regole e di opere già scritte, rappresenta una specie di forza naturale con cui l’uomo (l’autore) si confronta in ogni atto creativo. “Ci piaccia o no, siamo qui per imparare non tanto ciò che il tempo fa all’uomo ma ciò che il linguaggio fa al tempo. E i poeti, non dimentichiamolo, sono coloro “presso i quali il linguaggio vive”. È questa legge a insegnare a un poeta una rettitudine maggiore di quella che una fede, qualsiasi fede, possa ispirare”. Nell’affascinante prospettiva brodskijana è l’etica a discendere dall’estetica, e non viceversa.

 

Verso la metà degli anni ‘80 ebbi l’occasione di assistere a Milano ad uno spettacolo del Living Theater. Tra i vari ricordi positivi di quello spettacolo riaffiora anche un forte senso di disagio che, col senno di poi, mi spiego col fatto di essermi sentito un po’ manipolato. Di fronte all’invito/dovere di partecipare a quel rito (prendersi per mano, cantare etc) - un rito con uno scopo che potremmo chiamare di emancipazione - scattava in me un rifiuto istintivo. Forse reclamavo una distanza tra me e ciò che accadeva, il diritto a una mia interpretazione, foss’anche emotiva, libera e non direzionata. Il diritto a emanciparmi da solo… A questo proposito, trovo illuminanti le considerazioni di Jacques Rancière: “Lo spettatore è attivo, così come lo studente o lo scienziato: osserva, seleziona, confronta, interpreta. […] Compone la sua poesia con la poesia che gli si svolge davanti. Lui/Lei partecipa allo spettacolo se riesce a raccontare con le sue parole la storia che ha davanti. […] Presta attenzione alla performance nella misura in cui ne è distante”[3].

 

Nei primi anni ‘70, Harold Rosenberg scrisse che l’ultima e più coerente frontiera della performance, o happening, era rappresentata dalle manifestazioni politiche di piazza: lì pubblico e performer coincidono del tutto e l’azione, al di fuori di ogni simulazione, si fa davvero politica. Da un certo punto di vista, Rosenberg stava anche descrivendo il destino di tutte le forme d’arte (o anti-arte) che aspirano a quella presa diretta sulla vita che solo la vita stessa può avere: il crudele destino di dover mentire oppure sciogliersi per il calore emotivo prodotto dal processo di trasformazione da arte a vita. Conclusione non molto dissimile da quella cui giunge nel suo articolo la Gilligam, quando scrive, parafrasando Marx, che le performance artistiche sono destinate a ripresentarsi sempre, almeno in parte, come farsa. C’è qualcosa di amaro in questo, ma anche di disinibente. Prendiamo il famoso filmato I like America and America likes me, del 1974, che documenta i tre giorni che Joseph Beuys trascorse in una stanza insieme a un coyote. Credo che, vincendo un po’ di timore reverenziale per il maestro, qualcuno concorderà sul fatto che quel filmato ha un lato comico: lo “sciamano”, con una coperta sulla testa e un bastone in mano - proprio il fatto che Beuys non era un vero sciamano, ma un’artista, rende quella performance (anche) una pantomima farsesca. E tuttavia quell’opera rimane un geniale atto poetico: ambiguo ed estremo al tempo stesso, razionalmente ingiustificabile e distante da qualsiasi valore d’uso immediato[4], capace di aprirsi ad una ampia gamma di interpretazioni, dal tema della wilderness, alla guerra del Vietnam, senza mai risolversi in esse.

 

Infine, credo sia importante ricordare che non ci troviamo di fronte una dialettica tra due sole polarità - artista e pubblico; ce n’è una terza, tutt’altro che marginale: l’opera. “Questo spettacolo [o opera] è un terzo termine, al quale gli altri due possono riferirsi, ma che evita ogni genere di trasmissione diretta tra i due. È una mediazione tra di essi, e tale mediazione di un terzo termine è cruciale per il processo di emancipazione intellettuale”[5].

L‘opera arriva al pubblico non già come un pacchetto di significato, bensì come una piattaforma per elaborare diverse interpretazioni. Inoltre, l‘ideazione/creazione dell’opera è un processo che esorbita continuamente dalle previsioni dell’artista, sollecitandolo a nuove e impreviste reazioni. È questa dialettica interna alla genesi dell’opera che rende conto dell’inevitabile (ancorché nascosta) umiltà dell’artista. Per nostra fortuna, in questo continuo movimento tra volontà e accettazione, espressione e silenzio, soggettività e storia, succedono molte cose interessanti. E, come dice Francis Alÿs, “A volte il fare qualcosa di poetico può diventare politico e a volte fare qualcosa di politico può diventare poetico”.

 

(Edito in "Warburghiana_a_stampa", 2, novembre 2010; Luca Bertolo, I baffi del bambino, Quodlibet, Macerata 2018)

 

 

[1] Melanie Gilligan, The Beggar’s Pantomime: performance and its appropriations, “Artforum”, 45,10, summer 2007.

[2] George Orwell diceva: “Mantieni una parte di te inviolata”.

[3] Jacques Rancière, The Emancipated Spectator, “Artforum, 45, 7, march 2007.

[4] Foss’anche magico-rituale: perché solo i popoli con una vera cultura sciamanica vivono i propri rituali per il loro valore magico

[5] Jacques Rancière, The Emancipated Spectator, cit.


The Gift

Maura Banfo

n°8, settembre 2021

 

The Gift, 2018, 13x18 cm, stampa fotografica ai sali d'argento


Natæ sotto il segno dell'ofiuco, 1

Critical Studies Department, a cura di Paola Pietronave 

n°8, settembre 2021

 

Una conversazione condotta ai bordi del linguaggio -parlato e scritto- potenzia il suo carattere borderline in virtù del software di sbobinamento automatico che rilancia la dimensione del malinteso. Il malinteso può essere un luogo di senso, e implicitamente porta con sé la questione del rotolamento dei linguaggi, centrale nel contemporaneo.

Aleggia su tutto il tema del rapporto arte-vita, che qui emerge come imprescindibile dalla dimensione etica dell’arte.

È un testo difficile da leggere dove i significati emergono da un succedersi di opacità, le quali, proprio in quanto tali, impongono di fermarsi continuamente a pensare.

 

Cut-up radicale su sbobinatura automatica, trascrizione infedele di una conversazione avvenuta il 23 maggio 2021 tra Agnese Politi, Francesco Scalas, Gabriella Kolandra, Olivier Russo, Silvia Ontario, Vittoria Mascellaro e Paola Pietronave. Tutti fanno parte di Critical Studies Department, un dipartimento fittizio nato dagli studenti del Biennio di Arti Visive e Studi Curatoriali presso la NABA di Milano.

 

Download
Natæ sotto il segno dell'ofiuco
Critical Studies Department, prima parte
Documento Adobe Acrobat 68.4 KB
Download
Natæ sotto il segno dell'ofiuco
Critical Studies Department, seconda par
Documento Adobe Acrobat 67.5 KB

Appunti sul disegno, 1

Cesare Biratoni

n°8, settembre 2021

 

Immaginiamo di considerare il disegno fuori da ogni accezione artistica, che è quella che siamo soliti attribuirgli. Neghiamogli anche una funzione progettuale, tecnica, di pre-visione di qualcosa da realizzare. Pensiamo al semplice atto del guardare e del tracciare nel tentativo, mediante il contorno, di restituire pienezza (o forza, o senso) alle singole forme che compongono l'insieme di un soggetto. Questo tracciare mentre si guarda diventerebbe un’attività che trascende i propri risultati; si spiegherebbe da sé mentre si compie, nel farsi, su un piano difficilmente misurabile, alla luce di motivazioni impossibili da quantificare. Sarebbe la traccia parziale (ma come potrebbe essere altrimenti?) di un'attività creativa e conoscitiva (Fiedler) che si fonda sulla visione, la registrazione di un’esperienza visiva che è stata tale nel suo protrarsi in un lasso di tempo dai confini sfumati; in definitiva, una riflessione sui modi con cui costruiamo il rapporto tra noi e il mondo.

 

In questo suo essere traccia-registrazione – traccia perché registra ciò che diviene nel farsi, registrazione perché traccia il profilo e quindi il senso di questa memoria gestuale – risiede il suo interesse e, a mio avviso, anche la sua importanza.

 


Quando il bordo è "semipermeabilità": Arti.colo9

Federica Col

n°7, luglio 2021

 

Nell’episodio n° 5 del podcast di Arti.colo9 intitolato Semipermeabile, come la vita, riflettevo con Simona Pavoni, un’amica artista visiva, intorno alla necessità di tutti i viventi (inclusi noi umani) di essere "semipermeabili". La vita, essenzialmente, senza la generazione di un confine corporeo tangibile o impercettibile dall’uomo, non può esistere. La semipermeabilità è, metaforicamente, la proprietà che rende manifesta l’esistenza fisica di un essere vivente attraverso un contorno che lo circoscriva, permettendone lo scambio costante con gli altri esseri viventi. Se la permeabilità indica la capacità di un corpo di lasciarsi attraversare da un liquido o da un gas (Treccani) l’essere semipermeabili designa l’accogliere in parte le informazioni esterne di un essere e il condividerne alcuni scambi percettivo-sensoriali, comunicativi e organici. Non solo: l’essere semipermeabili associa anche il rapporto con gli spazi che abitiamo. A tal proposito, ricordo bene un passaggio significativo dei miei studi accademico-artistici a proposito di Jakob von Uexküll, biologo estone celebre soprattutto per gli studi sulla percezione e la morfologia degli esseri viventi e per l’introduzione basilare del termine Umwelt, che traduce la parola ambiente (Umwelt und Innewelt Der Tiere / L’Ambiente e il mondo interiori degli animali, 1921). Il padre dell’etologia teorizza la compresenza di due mondi all’interno di ciascun ambiente dove un organismo vive; dovremmo immaginare una bolla di sapone che circonda qualunque essere vivente e immaginarne: un mondo percettivo, comprendente tutte le possibili ricezioni dell’esterno e un mondo operativo, riferito alle possibili azioni e modificazioni prodotte attraverso gli organi effettori (Pinotti, Tedesco, Cortina 2013). In ogni ambiente, si creano così le condizioni interattive e mutuali tra l’interno e l’esterno di ciascun essere; come tante bolle di sapone complesse gli organismi tendono a sfiorarsi e a compenetrarsi (o a mancarsi talvolta), in una relazione costante tra il mondo percettivo e quello operativo. Uexküll sottolinea così l’inevitabile reciprocità che ci costituisce come organismi viventi circoscritti e incapaci di delimitare dei veri confini impermeabili alla realtà in cui esistiamo. Dunque, la metafora della semipermeabilità approfondita nella ricerca artistica di Simona Pavoni, mi ha permesso di comprendere meglio il passaggio fondamentale dello scambio relazionare che avviene in ogni conversazione di Arti.colo9. Di fatto, ogni incontro che realizzo tende a modificare il mio sguardo sul mondo e a donare viceversa un personale frammento di “bolla interiore”. Il rapporto dialogico trasforma così la chiacchierata in uno scambio osmotico, i cui rispettivi confini individuali si plasmano adattandosi ai rispettivi ambienti. Semipermeabile d’altronde, come la vita. 


Il distillatore

Sauro Cardinali

n°7, luglio 2021

 

Non sono buono allora?

 

Download
Il distillatore
Sauro Cardinali.pdf
Documento Adobe Acrobat 2.6 MB

Sul ciglio dell'attimo

Carla Della Beffa

n°7, luglio 2021

 

Muro di luce, 2021

Scrivo di luce e di ombre nei giorni del solstizio d'estate. Il cambio di stagione è un bordo, un limite al di là del quale qualcosa cambia, e mi ha sempre stupito il fatto che proprio quando si inaugura l'estate le giornate cominciano a accorciarsi: il culmine come inizio, sì, ma inizio della fine.

 

Mi ricordo da bambina, quando mi costringevano a fare il sonnellino e invece di dormire guardavo il raggio obliquo che entrava dalle persiane – chiuse ma non buie – e spiavo i movimenti del pulviscolo, la luce di qua, l'ombra di là. E poi la teoria delle ombre, a scuola, e la constatazione di come luce e ombre diano forma alle cose, ma possano anche trasformare una forma reale, concreta, nell'apparenza di qualcos'altro: basta lasciare che l'immaginazione vinca sulla logica.

Un tramonto può scavare il tronco di un albero o la vetta di una montagna, un'ombra può cambiare la geometria di un angolo, il volume di un parallelepipedo. Queste metamorfosi durano solo un attimo; quando le vedo, e non è detto, nella memoria rimane qualche istante luminoso, ma se non ne prendo nota, se non le fotografo subito, sono perdute. Se torno domani, alla stessa ora e nello stesso identico punto di vista (il che è impossibile) non sarà più la stessa cosa, perché la luce è come l'acqua del fiume: scorre, è diversa ogni ora, ogni giorno. E sono diversa anch'io, un po' ogni giorno.

 

La luce diurna è un principio unico, viene tutta dallo stesso Sole, anche se è capace di moltiplicarsi e rifrangersi e dividersi in lunghezze d'onda diverse; ma le ombre sono molteplici, una per ogni cosa accarezzata dai raggi, e cambiano forma continuamente con il variare dell'inclinazione. Se le immagini documentano la linea di confine fra luce e ombra, la voglia della luce di inventare forme nascoste, sul piano teorico mi interessano la costanza e la velocità del mutamento. In questo senso essere sul ciglio dell'attimo è come camminare seguendo il culmine di una montagna, in bilico fra due versanti: bisogna fare attenzione a ogni passo.

 

Da anni registravo le sorprese e gli spostamenti di luce e ombre, ma sono diventati il tema di una ricerca più chiara e precisa durante il periodo del confinamento da Covid. Chiusa in casa, o fuori per la strada entro il raggio di un chilometro, ho potuto incontrare il fantasma luminoso che entra dalla finestra e per un momento accarezza il muro, l'ombra che in quel momento disegna grafiche nuove sul marciapiedi di tutti i giorni.

Sono sempre stata sensibile ai dettagli, ma ho imparato a cogliere il margine, la linea labile fra luce diffusa, luce diretta e ombre, il movimento graduale ma rapidissimo da uno stato all'altro. Ho visto come in città la luce non abbia regole, perché incontra sul suo cammino troppe distrazioni: così il riflesso sul cofano delle auto parcheggiate sotto casa (talmente sotto che sembrano squali pronti all'attacco) colora il soffitto; un raggio diretto disegna la ringhiera del balcone con le sue ombre oblique e parallele; un raggio si riflette nel metallo di una grondaia, entra in camera e carambola fra muri e armadi.

La luce va dove vuole, trova tutte le asperità, scopre tutti i trucchi, gioca, rimbalza, non è facile seguirne il percorso. C'è qui vicino una piazza rotonda dove certe sere la luce del tramonto sembra arrivare da ogni lato, destra, sinistra, alto, basso. Infotografabile, si può solo raccontare.

 

Henri Cartier-Bresson[i] cercava la tensione del momento, dell'istante perfetto fra le persone, i luoghi e i gesti; a me piace un gioco più piccolo, più modesto, più discreto: cogliere la luce che c'è, inseguirla finché c'è tempo.

Il bordo – orlo, ciglio, confine, limite, margine – di luce e ombra è anche un bordo del tempo: aperto e veloce, incontrollabile, fuori di noi. Capirlo è un esercizio di attenzione e consapevolezza, una specie di meditazione sulle variazioni dell'attimo. Bisogna essere pronti a prenderlo al volo, e non sempre è possibile: molto dipende dal momento, dall'armonia dentro/fuori (ancora un altro bordo, il rapporto mente/corpo/percezione: impossibile da conoscere, spesso etichettato dalla scienza con definizioni vecchie e discutibili, scrive Siri Hustvedt[ii]). Ma quando funziona, allora è quasi un'estasi. Molto molto breve, questione di attimi, ma è tanto, un attimo perfetto che lascia una traccia di pixel.

 

[i] Henri Cartier-Bresson, Le Grand Jeu, mostra a cura di Sylvie Aubenas, Javier Cercas, Annie Leibovitz, François Pinault, Wim Wenders, Palazzo Grassi: Venezia 2020

[ii] Siri Hustvedt, "The Delusions of Certainty", in A Woman Looking at Men Looking at Women , London, Sceptre 2017


Breve esercizio fallimentare per l'eliminazione dei confini

Serena Fineschi

n°6, luglio 2021

 


Appunti sul disegno, 2

Cesare Biratoni

n°6, luglio 2021

 

Il disegno si sviluppa nei rapporti di tensione tra forme che confinano. La traccia della matita accarezza i bordi, disegna linee di demarcazione. Di fatto il disegno dal vero è la manifestazione grafica della continua esplorazione che i nostri occhi compiono del mondo in quanto insieme di pieni e di vuoti. L’occhio per comprendere le forme delle cose si sofferma sui loro bordi, li naviga, li esplora, li assume come punto di riferimento; la matita si trasforma in un sismografo sensibilissimo, che registra ogni variazione dei limiti, anche la più piccola e impercettibile.

A proposito della giustezza o meno di tali forme è interessante notare come spesso il disegno, in un primo momento, possa sembrare sbagliato; Valery spiegava come fossero i rapporti ad essere sbagliati, e non le forme, come se nel tracciare una linea di contorno non riuscissimo a garantire una concordanza nelle proporzioni tra le parti. Ma anche in questo caso potremmo affermare che nessuna visione ha nelle proporzioni il suo fondamento; la giustezza dei rapporti è un tema stilistico e culturale, un problema di restituzione e di comprensione delle distanze reali in termini di centimetri o di metri o di chilometri su un piano bidimensionale, ma perde di importanza se consideriamo il meccanismo fisiologico della visione, che ha caratteristiche sferiche, e che viene costantemente orientato e attraversato da presupposti culturali, pattern psicologici e stati emotivi.

 

Giorgio Morandi, 1955


Vivere sui bordi: tre atti

Beatrice Meoni e Marco Salvetti

n°6, luglio 2021

 

Download
Secondo atto: Beatrice visita Marco
Beatrice Meoni.pdf
Documento Adobe Acrobat 32.8 KB
Download
Secondo atto: Marco visita Beatrice
Marco Salvetti.pdf
Documento Adobe Acrobat 39.0 KB
Download
Terzo atto
Terzo atto.pdf
Documento Adobe Acrobat 32.5 KB