Cosa facciamo quando facciamo arte

Roberto Bellon

n°17, giugno 2022

 

Cosa si fa, dunque, quando si fa arte?

Si fa ciò che l’arte è. E, dunque: che cosa è l’arte, quando la si fa? Oppure: come si distingue il fare arte da altre pratiche? Cambia, questa riflessione, nel tempo?

 

Tutte le pratiche umane hanno presupposti simili – assumendo che gli umani, in qualsiasi fare, siano simili. E’ forse il peso relativo con cui tali presupposti entrano nella pratiche che distingue l’arte da altro? E’ tale distribuzione dipendente dalla direzione e verso della pratica, e/o viceversa? Una pratica senza direzione e verso è indistinguibile. Ed allora: come si forma quella distribuzione di pesi? Non vi e’ altro che l’incontro tra chi fa, l’essenza o costituzione di chi fa, ed il contesto in cui si fa. E questa costituzione e contesto sono il risultato di un nugolo di credenze, metodologie, strumenti, elementi, eventi, ecc., ognuno con la propria essenza o costituzione.

 

Focalizzandoci sulla pratica contemporanea, riconosciamo similitudini di direzione e verso in chi pratica l’arte, in chi fa arte? La varietà è grande – come in tutte le pratiche umane. Vi è un bilancio a riguardo di come quei presupposti, presenti in ogni pratica, si combinano dando una direzione e verso preponderante alla contemporanea pratica dell’arte, oppure no? Se la risposta è no, come penso, allora non si può dire cosa sia l’arte. Si può pero’ dire cosa vorremmo che l’arte fosse. La domanda, allora, diventa: cosa vorremmo fare, quando si fa arte?

 

Perché dico che non vi sia una direzione e verso preponderante nell’arte contemporanea? Proveniamo da secoli in cui la società umana ed i suoi individui sono stati enormemente influenzati dallo sviluppo sempre più massivo e penetrante delle macchine, nelle loro varie forme. Sappiamo che la materialità – ma anche l’immaterialità – dell’arte è ora inglobata indistinguibilmente nelle relazioni politiche ed economiche della società contemporanea. Abitiamo una società in cui il misterioso, l'assurdo, l'orrido dei nostri sogni, sdoganati dopo almeno un secolo di "ermeneutica del sospetto", fanno parte della quotidianità (le teorie cospiratorie). Abitiamo una società in cui ogni risorsa è, allo stesso tempo, merce e portatrice di inimmaginabili profitti a chi possiede, per legge, tali risorse. Abitiamo in una società in cui sia gli obiettivi delle avanguardie storiche che del capitalismo si sono realizzati – per una sinergia certo non intenzionale ma attuata (surrealismo e relazioni pubbliche; propaganda e pop-art) e coadiuvata da secoli di relegazione dell'arte all'estetico separato dal politico ("l'art pour l'art", la "musica assoluta", ecc.) – un percorso che riceve quasi una “certificazione” con l’avvento dell’accoppiata, anch’essa sinergica, post-moderno/neo-liberalismo. L'arte diventa indistinguibile dalla non-arte, il vero dal non-vero, la merce dalla non-merce. Chiedersi “cosa facciamo quando facciamo arte”, riformulata in “cosa vorremmo fare, facendo arte”, diventa allora uno dei pochi sintomi di sanità nel mondo di oggi.

 

Brevissimo excursus ontologico e metafisico sul mondo in cui ci ritroviamo immersi. Ciò  che differenzia il caos dal caos non può essere altro che la differenza, il segno che viene percepito “localmente” da altre differenze (relazionandosi, aggregandosi), formando così un universo segnico e dunque linguistico. Che sia l’universo come descritto dalla fisica (enorme potenziamento delle nostre percezioni sensoriali), oppure il dialogo tra alberi in una foresta, e senza dubbio tra qualsiasi organismo che definiamo vivente (ma perché non anche per il non-vivente?), la realtà è una rete di relazioni e rapporti che si può formare con il separarsi/differenziarsi ed il valore di ricongiungimento che ciò  inaugura, ossia la traduzione che, fino all’avvenire di tale ricongiungimento in una metamorfosi continua, stabilisce il significato come complementare all’incomprensione – sempre e solo “localmente”. Ma che cos’è questa “località” che ho posto, per ora, tra virgolette?

 

Lo spazio a cui tale “località” si riferisce è lo spazio all’interno del quale esistono tautologie ed al confine del quale i significati si formano e si riformano. E’ uno spazio linguistico in cui la lingua non è certo la lingua naturale umana ma qualsiasi sistema segnico – alla Peirce, per intenderci. Le “località” sono innumerevoli come lo sono le differenze – di cui noi individui siamo solo un’istanza. Possiamo anche chiamarla paradigma, o contesto.

 

Nelle pratiche umane vi è sia lo stare all’interno di tale “località”, sia l’esplorare al di fuori dei confini di quella. Vi è verità e progresso all’interno (le tautologie possono essere espresse in modi diversi ma sempre commensurabili), vi è rottura di verità e progresso quando ci si avventura all’esterno. Agiamo in entrambe le modalità, costantemente, in qualsiasi pratica. Ma se il seme che può diventare progresso ha grandi probabilità di crescere perché si è formato all’interno di quella stessa “località” da cui proviene, il seme che può diventare un nuovo linguaggio ha grandi probabilità di perdersi – perché all’esterno la costituzione, e dunque la ricezione, è diversa e sconosciuta.

 

Tornando alla nostra domanda ed al presente, non vedo più grande valore nel fare se non quello che incrina le tautologiche verità ed il distopico progresso di un mondo focalizzato sulla psicopatologia commerciale-finanziaria – metabolizzazione monotematica della transizione dai valori pre-moderni delle élite cristiane e nobiliari a quelli secolari, metabolizzazione pressoché completata dagli ultimi 50 anni di sinergia post-moderna/neo-liberale. E’ un lavoro di tessitura, direi tessitura affettiva – senza voler offendere nessuno, potremmo pensare alla pratica artistica come una forma di lavoro affettivo senza mercato – perché senza contesto. Un lavoro affettivo di germogliazione e cura di valori, direzioni e versi, significati. Un’arte che non si sottrae alla responsabilità di partecipare alla società e alla politica, nel tentativo di ridisegnare la località in cui viviamo. Che poi si impieghino tecniche artistiche, scientifiche o gestionali come humus in cui coltivare il seme di quest’arte non importa – importa invece l’immettere rinnovate incomprensioni per cui, e su cui, il significato, il valore, come traduzione e cura tra quelle incomprensioni, fa da ponte.

 

L’improduttività materiale (o la produttività immateriale); la sospensione della sequenza causa-effetto; il sogno ad occhi aperti; la meraviglia ed il rispetto; la separazione tra pratica e reddito; alcuni valori in un nuovo linguaggio politico-sociale che l’arte può alimentare e proteggere. Non sono valori marxisti, o liberali, o morali. Sono valori politici, estetici e poetici che tendono al rendere ciascun essere umano (e non) autonomo e dunque libero, nel contesto di relazioni in cui abita, di esprimere la propria essenza, o costituzione fondamentale. Quasi paradossalmente, se letta con le lenti moderne, è ora l’arte a dover apportare ragione al mondo.

 


A volte mi capita

Angelo Mosca

n°17, giugno 2022

 


Testo destinato a BORDI

Pasquale Polidori

n°17, giugno 2022

 

[1]

(Sul pavimento, al centro della stanza, è tracciata una linea diritta. Dalla parete di fondo, la persona avanza e si posiziona con la punta delle scarpe esattamente sulla linea. Controlla che la punta delle scarpe non oltrepassi la linea. Guarda di fronte. Si massaggia la mano destra con la sinistra, la mano sinistra con la destra. Parla.)

 

Un possibile titolo per il testo destinato a Bordi potrebbe essere l’enunciato che in tono programmatico e senza girarci intorno dichiari le intenzioni che vi stanno dietro. Come segue.

 

Bordi della Nascita di Venere di Botticelli, percorsi con lo sguardo partendo dall’angolo in basso a destra e procedendo verso l’alto fino a compiere un giro completo intorno alla tela.

 

 

[2]

(Guarda in basso, in alto, fa vagare lo sguardo per lo spazio. Intanto pensa. Si massaggia le mani. Poi si volta e torna alla parete di fondo. Passa un minuto. Di nuovo avanza fino alla linea, e torna sul possibile titolo destinato a Bordi, nel desiderio di precisare. Controlla che la punta delle scarpe non oltrepassi la linea. Guarda di fronte. Distende in avanti le braccia, le tiene all’altezza del petto, muove le dita ben tese verso l’alto e verso il basso divaricandole. Poi lascia ricadere le braccia lungo i fianchi. Parla.)

 

Un possibile titolo per il testo destinato a Bordi potrebbe essere l’enunciato che in tono programmatico e senza girarci intorno dichiari le intenzioni che vi stanno dietro. Per esempio.

 

Bordi della Nascita di Venere di Botticelli, percorsi con gli occhi un pezzetto alla volta partendo dall’angolo in basso a destra e procedendo lentamente verso l’alto fino a compiere un giro completo intorno alla tela, e descritti, quei bordi, a parole povere, in un lessico non ricercato, non specialistico, non toccato dalla storia dell’arte, non premuto dalle esigenze della, non modellato ai criteri di verità della, non relativo ai contesti di garanzia semantica della, e quindi non asservito alla, non sottomesso al controllo di possibilità della storia dell’arte.

 

 

[3]

(Porta le mani davanti agli occhi, si copre gli occhi, scuote la testa mentre tiene gli occhi coperti. Di nuovo si volta e fa ritorno alla parete di fondo. Lì giunta, la persona apre le braccia contro la parete e vi aderisce con la parte anteriore del corpo. Preme contro la parete con i palmi delle mani e con la guancia destra, poi con la guancia sinistra. Passano un paio di minuti. Si stacca dalla parete, si volta e come in precedenza avanza fino alla linea, e torna sul possibile titolo destinato a Bordi, nel persistente desiderio di precisare. Flette il busto in avanti, lo piega contro le gambe, spinge la testa verso il basso e con le mani si accerta che la punta delle scarpe non oltrepassi la linea. Si rimette in posizione eretta e guarda di fronte. Parla.)

 

Un possibile titolo per il testo destinato a Bordi potrebbe essere l’enunciato che in tono programmatico e senza girarci intorno dichiari le intenzioni che vi stanno dietro. E cioè.

 

Bordi della Nascita di Venere di Botticelli, percorsi con gli occhi un pezzetto alla volta facendo strisciare lo sguardo sullo strato di tempera che ricopre la tela, spingendo lo sguardo premurosamente in avanti, esortandolo a proseguire, a non stancarsi per nessuna ragione al mondo di aderire alla tela, partendo dall’angolo in basso a destra e procedendo lentissimamente verso l’alto fino a compiere un giro completo intorno alla tela, e descritti, quei circa nove metri di bordi di pittura, descritti a parole povere, parole disponibili nell’immediato, essendo certamente consapevoli che l’immediato non esiste affatto, che le parole più sono povere e più sono distanti e raggiungibili solo a costo di rinunce dolorosissime, ed essendo certamente avvertiti che quel che si descrive non è quel che si vede, che le due strade, la strada della descrittura e la strada della guardatura si divaricano ogni qualvolta noi siamo alle prese con un oggetto qualsiasi lì davanti, e anche a causa di questa consapevolezza profonda che noi abbiamo proprio dentro gli occhi, noi questi bordi li attraversiamo senza preoccuparci affatto di dare forma a un pensiero coerente, a uno sguardo lucido, capace di ritrovare i suoi motivi, obiettivi, coordinate, poiché lo sanno tutti che vi sono più motivi, obiettivi, coordinate nello sguardo che indaga il cassetto della cucina alla ricerca di un grattalimoni, che non invece nello sguardo che si accolla la fatica di percorrere i bordi della Nascita di Venere di Botticelli.

 

 

[4]

(Si porta un braccio davanti agli occhi e scuote la testa. Ancora una volta se ne torna alla parete di fondo. Si stende per terra, sul fianco sinistro, con la faccia contro la parete. Solleva il braccio destro e fa roteare la mano in aria. Fa dei giri con la mano agitando il braccio liberamente in aria. Passano alcuni minuti. Si stacca dalla parete rotolando in avanti fino alla linea; lì si ferma e si alza in piedi. Flette il busto in avanti, lo piega contro le gambe, spinge la testa verso il basso e con le mani si accerta che la punta delle scarpe non oltrepassi la linea. Si rimette in posizione eretta, guarda di fronte, poi muove lentamente la testa guardando indietro verso sinistra, senza girarsi col busto, voltando solo la testa e spingendola al massimo verso sinistra indietro, poi fa lo stesso verso destra, prima di guardare di fronte, così nuovamente tornando sul possibile titolo destinato a Bordi, nell’inappagabile desiderio di precisare. Sospira. Parla.)

 

Un possibile titolo per il testo destinato a Bordi potrebbe essere l’enunciato che in tono programmatico e senza girarci intorno dichiari le intenzioni che vi stanno dietro.

 

Bordi della Nascita di Venere di Botticelli, percorsi con gli occhi un pezzetto alla volta millimetro dopo millimetro facendo strisciare lo sguardo appiccicoso, lo sguardo bavoso di occhi lumaca che rilasciano una quieta conseguenza lucente sullo strato di tempera che ricopre la tela, in tal modo che i bordi ora sono segnati una volta per sempre, a testimonianza perenne del passaggio degli occhi, e spingendo lo sguardo con forza in avanti, esortandolo a proseguire, a non smettere di lisciare quei bordi, per nessuna ragione al mondo finirla di aderire alla tela, partendo dall’angolo in basso a destra e procedendo lentissimamente lucentissimamente aderentissimamente verso l’alto fino a compiere un giro completo intorno alla tela, ricongiungendosi lo sguardo a sé stesso, lo sguardo che partì e lo sguardo che arriverà nel punto da dove lo sguardo era partito, e succede una festa al momento del ricongiungimento dello sguardo a sé stesso una volta compiuta l’impresa di percorrere i bordi, i lunghissimi bordi, gli incommensurabili bordi impensabilmente infiniti, gli occhi commossi al traguardo si autoabbracceranno, si autocomprenderanno, si autoperdoneranno le pigrizie passate, le sbadataggini, le viste non viste, le guardature sceme, secchezze, avarizie, le frettolosità alle spalle dell’oggetto veduto lì davanti, veduto appena appena, veduto un accidenti, e si autoassolveranno, gli occhi commossi al traguardo si autoprometteranno futuri lentissimi scrupolosissimi percorsi, e nel frattempo ovviamente descritti, quei circa nove metri di bordi di pittura, descritti a parole povere, parole disponibili nell’immediato, gratuite, trasparenti, che lasciano trasparire ben bene la pittura al di là di sé stesse, ed essendo noi certamente consapevoli che l’immediato non esiste da nessuna parte, che le parole più sono povere e più sono distanti e raggiungibili solo a costo di rinunce dolorosissime, e che lungo questi bordi niente di niente può mai essere gratuito, sì, lungo questi bordi tutto si paga caro, se parliamo di vedere, se parliamo di coprire con gli occhi le distanze profonde lungo i bordi millimetro dopo millimetro, allora nulla potrà mai darsi per scontato, ed essendo poi noi stati creati in fondo in fondo per essere avvertiti che quel che si descrive non è certamente quel che si vede, e che le due strade, la strada della descrittura e la strada della guardatura si divaricano al massimo ogni qualvolta noi abbiamo a che fare con un oggetto qualsiasi lì davanti, figurarsi se sbattiamo contro la Nascita di Venere di Botticelli, allora non c’è verso di far giacere le due strade una sull’altra, ed è sicuramente a causa di questa consapevolezza precisa, abitante proprio dentro nel più dentro degli occhi, che noi questi bordi li attraversiamo contenti di patire l’incomprensibile, cioè senza sforzarci affatto di dare forma a un pensiero coerente e ovunque luminoso, sufficientemente luminoso da non rischiare l’intoppo ogni tre concetti, un giro di logica senza incidenti, o uno sguardo capace di ritrovare i suoi motivi, obiettivi, coordinate, essendo da tempo dimostrato che vi sono più innumerevoli motivi, obiettivi, coordinate nello sguardo del tutto irriflessivo che indaga il cassetto della cucina, lo sguardo indifferente a tutto il resto che non sia il suo concretamente definito obiettivo, lo sguardo dedito alla balordaggine cieca dei suoi fini che indaga il cassetto della cucina alla ricerca tutto sommato ottusa egoistica assolutistica di un grattalimoni, che non invece nello sguardo che buono buono, onesto e aperto, amorevole di ogni superficie, si protende generosamente verso l’oggetto e si incammina con i suoi metaforici inutilissimi piedi lungo i bordi disgraziati e franosi della vasta utopistica remota desertica bugiarda Nascita di Venere di Botticelli.

 

 

(Cade a terra.)

 


Prima che l'acqua ci arrivi alla bocca

Stefano Peroli

n°16, maggio 2022

 

Ascoltami prima che l’acqua ci arrivi alla bocca; ogni pittore può avere successo, cioè la conferma che non può assolutamente valere più niente. Costare tanto, tantissimo, ma anche questo per confermare che non può valere più niente. Più il successo diventa importante, più i prezzi diventano importanti e più il grande artista dimostra di non valere più niente, che la sua arte, grande e grandissima, non vale più niente in questa vita, su questo pianeta, in questo spazio. Perché l’inutile arte dovrebbe valere qualcosa su questo pianeta, dire qualcosa, servire a qualcosa? Perché gli artisti famosi e famosissimi, contemporanei e internazionali, imbesuiti dalla loro arte, dalla loro celebrità, dalla loro inutilità, dovrebbero dire qualcosa? Calmati, aggrappati a me. Perché dici questo?

Non lo so, non dovrei? Anche gli artisti poco conosciuti e sconosciutissimi sono inutili, imbesuiti. Affoghiamo nella nostra inutile creatività. La terra è la nostra unica prigione e dovremmo bruciare tutto quello che facciamo, anzi non farlo neppure. Troppo consumo per stare in piedi, per vivere, per sostenere i nostri gesti artistici. Basta: dobbiamo dipingere il meno possibile, vivere il meno possibile, non vendere niente. La prigione è questo suolo che viviamo, non c’è altro suolo, non c’è altro spazio. Valiamo poco, approfittiamone per liberarci di tutto. Ma non ci si può liberare più di niente. Ricordati di cosa abbiamo in tasca, l’oggetto che vibra, che possiamo silenziare; non cambiamolo più, siamo virtuosi, non cediamo agli inganni dei mercati. Utilizza più che puoi anche il tuo dipinto, l’unico che puoi ancora fare come se fosse l’ultimo.

Ho letto il pezzo di Ermanno su l’opera d’arte “tra frequentazione e pornografia” e mi è piaciuto molto e moltissimo alcuni antichi nomi, Wind, Pareyson, che leggevo da giovane. Che nostalgia ripensare a quelle letture. Potresti rituffartici dentro.

No, non potrei rituffarmici dentro, preferisco ciò che sono oggi, quello che vedo oggi, quello che oggi non posso più essere. Infatti non sono. Infatti so di non essere niente. Posso dipingere, mi è concesso, sono un uomo libero fra uomini liberi, pur sapendo che dipingere non serve a niente. Eppure respiro, così nudo e vuoto di senso, io respiro; respiro anche dopo due anni di mascherinamento. Mai visto in vita mia umanità migliore, più bella, anche se col viso coperto, perché non si poteva veramente più guardare in faccia nessuno e col viso un po’ coperto (tranne gli occhi, mai stati più belli) ho cominciato a vedere in faccia qualcuno, come per la prima volta; i volti, si, ho cominciato a rivedere qualche volto.

Si, oggi respiro, il mondo è meritatamente di nuovo nella merda, la nostra merda, ma io respiro più di prima. Anche i morti, che non respirano più, respirano dentro di me, mi fanno respirare molto. Non so più perché io dipinga ancora, ma so che respiro. I quadri li sbaglio tutti ormai, ma respiro. Ottimo il quesito in fondo al pezzo di Ermanno, “ … come si pone il tema della messa in forma nell’epoca in cui il contesto ecc. …”, ma oggi credo che sia difficile porsi questo quesito, perché è terminata la necessità di inventare il linguaggio artistico, è proprio finita questa necessità; questo problema, forse per alcuni ancora urgente, sentito, credo non sussista più.

Credo che la vera “messa in forma” siano ancora gli affreschi del ‘400, lì fermi, che non si sono mai mossi. Il Tributo di Masaccio è lì, non si è mai mosso, carico di quella vera gioia profonda che noi non possiamo più conservare, non possiamo più rigenerare. Al contrario una tela cosa vuoi che sia, cosa saranno mai tutte le tele prodotte dopo. Quella parete affrescata è lì e ci dormirei davanti con i piedi che la toccano tutte le notti della mia vita e nemmeno più come artista, né come turista, né come uomo colto, istruito, ignorante, ma solo come essere vivente che crede solo negli esseri viventi, condividendo un po’ di pane, un po’ d’acqua. Beata messa in forma, forma di vita, che non c’è più.

Caro Ermanno, non è da escludere che io sia nato nel secolo sbagliato (quel meraviglioso 1958 di un secolo infernale), ma nessun artista contemporaneo, compreso il sottoscritto, può restituirmi alcunché: il più piccolo indizio sull’eventualità di una messa in forma odierna. Forse non è nemmeno da escludere che noi si debba ancora nascere, o che siamo nati, semplicemente, già morti, in sovrappiù, utilmente inutili nella nostra odierna fantasmagoria.

Un disperato tentativo di “messa in forma” per un nuovo linguaggio è rappresentato da un enorme quadro di Novelli che ho visto alla Biennale di Venezia qualche anno fa, nel 1968 … qualche anno fa? Ma tu nell’estate del 1968 avevi solo dieci anni e non eri neppure a Venezia, ma a Milano … Io quel quadro enorme, pare di tre metri per sette, l’ho “certamente sognato durante una stupenda notte”, ma non so più quando. Lo stesso Novelli lo distruggerà. Si intitolava “Per navigare più oltre”. E certamente il tentativo più incredibile che sia stato fatto in tutti questi anni; del resto, morto Novelli, morto tutto. Vorrei tanto essere ancora davanti a quell’esperimento visivo, ma non è più possibile.

Meglio alla COOP che al MoMa. Meglio vagare settimanalmente alla COOP che in un museo, molto meglio spingere un carrello con la spesa, deambulando con incertezza, che entrare in un museo. Sono entrambi necessari, ma io preferisco la COOP.

Caro Ermanno, io credo che l’opera non debba più attendere di essere accompagnata fuori, perché non c’è più un fuori, tutto è fuori e tutto è dentro, senza soluzione di continuità e la prospettiva relazionale è già la nostra vita, con i suoi eventi che ci scuotono. Non esiste più un fuori, esiste solo uno stare a cielo aperto, semivestiti, seminudi, totalmente esposti e legatissimi senza più un fuori. Però, Ermanno, non è poi così male questa dimensione senza un dentro e senza un fuori, sospesi come in una rappresentazione eterna, tutti intrappolati come in un sogno senza alternative, da vivere e combattere come viene.

La messa in forma per un artista è un processo davvero irrinunciabile, intimo o collettivo, è comunque un gesto con cui ci si abbandona ad un’ansia di salvezza, di creatività o di follia, anche solo di riscatto, consumato nella nostra solitudine o inclusività che sia, o anche solo nella compulsione all’apparire. Però non c’è più un fuori e non c’è più un dentro e ciò ci rende imbarazzati, spaventati, ansiosi o intraprendenti, pure fiduciosi; ma anche ciechi, intrappolati, forse morti senza poterlo credere.

Mi abbandono al flusso e alla dolce follia che alimenta il mio gesto, che sostiene la mia forma, quella forma che mi ignora, che non mi chiede più nulla, anche se cerchiamo entrambi, io e la forma, di entrare in contatto a tutti i costi. Sono proprio dei bei momenti quelli davanti alla tela del nostro mondo, senza più un fuori. Anche nello “Sguardo dal di fuori” (ti ricordi Ermanno? bei ricordi, ottime letture) non c’è mai stato un fuori.

Eppure non sono mai stato più felice di ora, nonostante tutto, a metter mano alla “messa in forma” di cui parli con giustificata apprensione. La messa in forma di una figura umana che tenta ancora di farsi vedere dal suo spazio, che era anche il nostro; dal suo vuoto, che era anche il nostro. Una figura, la messa in forma, che teme il proprio smarrimento come noi, che vuol farsi vedere ancora per qualche metro, prima che tutto finisca, pur sapendo che tutto è già finito. Ma tutto è finito? Credo di si, almeno credo. Ma credi davvero che finirà tutto? Questo è poco ma sicuro. Almeno credo. Ma chissà cosa sappiamo veramente, io e la forma, camminando assieme fra la nostra “velocità” e la nostra “insignificanza”.

 


Contributo al margine autorizzato e autorevole

Sergio Breviario

n°16, maggio 2022

 


Ciò che conta

Marta Galbusera

n°16, maggio 2022

 

 È un gioco semplice, ma vero. Si conta fino a tre per diventare un povero bucefalo cavalcato dal suo cavaliere, e si comincia a tracciare il proprio destino facendo molta attenzione: nessuno prevarica sull’altro, né il cavaliere né il bucefalo. 

I vostri corpi adesso hanno del miracoloso. Siete due animali elevanti in potenza - anche nel pericolo. 

Insieme si corre e insieme si cade. 

Non esiste più il mio e il tuo corpo ma, semplicemente “ci si fa”. È nel farsi, cioè nell’immaginarsi, nel pensarsi, nel vedersi, nel disegnarsi, nel domandarsi, che si diventa. 

Ma perché ciò accada però, è necessario anzitutto sentire. 

Sentire. 

Ricordate? 

 

Vedo con occhio che sente, sento con mano che vede. 

 

Ecco allora che questo gioco, senza che voi lo vogliate o meno, diverrà pericoloso. 

Sogno desto e scalpitante, come tutte le cose vive, questo gioco non sarà mai innocente. 

E se non lo capite? 

Beh! Sarete costretti a scendere nella gola cieca della Terra diventando una squadra di minatori di carbone. Ci sarete voi, una luce fioca, l’aria rarefatta e un povero canarino ingabbiato ma attenti, perché la sua presenza, non sarà mai specchio della vostra stessa commiserazione. Piuttosto, al suo improvviso dimenarsi, al suo improvviso agitare le ali, sbattendole anche contro la gabbia e ferendosi, per lui, ma soprattutto per voi che saprete vederlo, questo, sarà un cattivo segno. In questo gioco vi hanno detto infatti che l’animale si agiti sentendo il pericolosissimo gas, infiammabile e inodore, grisou. 

Dunque, voi e l’animale, o meglio, grazie a lui e con lui, vedendo venire il pericolo, la catastrofe, sarete in grado - se non di salvarvi, almeno di provarci – a risalire dal ventre della Terra per tornare a vedere finalmente la luce. 

 

Anche qui, come nel cavaliere e nel bucefalo: lui con voi, e voi con lui. 

 

Ecco allora che senza accorgervene, i vostri confini sono stati dissolti nella forma con cui vi mostrate al mondo. Appartenete a un’unica immagine o, se vi piace di più, a un destino comune. 

 

Ma adesso, siete insieme. 

Questo, è quello che conta veramente. 

 

 

Didi-Huberman, G., Sentire il grisou, Orthotes, Napoli 2021

Goethe, J.W., Poesie erotiche, SE, Milano 2016.

 


Dentro il mondo

Matteo Innocenti

n°15, aprile 2022

 

La questione dei bordi come limite di contatto tra due dimensioni, quindi potremmo dire una marginalità intesa in modo positivo, credo che attraversi tutta la storia delle arti. Ogni tipo di rappresentazione presuppone una considerazione sul rappresentato, che ciò sia cosciente a pieno grado o meno; restringendo l'ambito a quello delle sole arti visive, un dipinto rinascimentale inquadrato dall'eleganza e dalla rigidità del sistema prospettico o una scultura barocca con la sua spettacolare sovrabbondanza di movimenti e pathos, stimolano il pensiero critico sul reale almeno quanto un'opera più programmatica, e di altro periodo, come potrebbe essere la sedia una e trina nella versione oggetto, fotografia, definizione dal vocabolario. Non casualmente già Platone rilevò una potenza precipua delle arti, per volgerla a loro sfavore e procedere a una critica negativa: in quanto mimesi imperfetta di cose imperfette (e quindi allontanamento ulteriore dalla verità delle idee) e capacità di accendere gli animi, portarli a uno stato di eccitazione, far scaturire vari tipi di sentimento.

Con ciò non voglio dire che ogni epoca sia uguale a livello di realizzazione artistica, tutt'altro, e specificherò il mio punto di vista tra poco; ciò che mi interessa sottolineare è che le arti, a livello costitutivo, si pongono in una zona di passaggio tra il conosciuto e ciò che ancora dobbiamo e vogliamo conoscere, tra il determinato e l'alternativa possibile.

Che cosa quindi caratterizza ciò che definiamo arte contemporanea, rispetto ad altri periodi? Ricorrendo alla delimitazione “ampia” per cui è arte contemporanea quanto inizia dalle avanguardie storiche, pare evidente, sintetizzando al massimo, che l'insieme di forti novità emerse da allora abbiano proceduto verso due punti: l'ampliamento di ciò che si può considerare arte - secondo il binomio arte e vita - e la riflessione sul linguaggio. Attualmente noi siamo ancora immersi in un contesto artistico in cui l'interrogazione sul linguaggio resta dominante: le opere tendono a porsi domande su quanto è stato realizzato in arte prima di loro e sui modi in cui si possa, per loro stesso tramite, variare il discorso. Anche ciò non è probabilmente nuovo, ad esempio l'età ellenistica e il manierismo si caratterizzarono per la continua sperimentazione sul linguaggio artistico, spinta fino al virtuosismo. Ogni età fa arte in base allo stato culturale della società in quel momento, toccando ciò che le pare importante e interessante. Senza che ciò si muti in stasi, poiché il processo umano è sempre in fermento.

Tornando in modo più diretto alla questione dei bordi, noi dove ci troviamo? La mia opinione è che noi potremmo trovarci all'inizio di una lunga transizione. Provo a spiegarmi meglio. L'interrogazione sul linguaggio operata dalle arti visive da oltre un secolo, per quanto apporto necessario e di valore, è da anni in esaurimento. Il dominio della forma va a scapito del rapporto con l'enunciato, e in sostanza oggi le opere molto raramente ci dicono qualcosa (fuori dalla sfera dell'arte) a riguardo del mondo cui appartengono. La rinuncia a un rapporto con l'enunciato può persistere per un periodo limitato, a segnare un'emergenza specifica, non come stato di cose protratto – in fondo le altre arti, si pensi a quelle performative, alla cinematografia o alla letteratura, non hanno proseguito in modo così netto in tale direzione. Per quanto chi sta dentro le arti visive, per passione e lavoro, possa apprezzare un discorso puramente formale, quasi privo di referenze esterne, dobbiamo considerare che ciò comporta necessariamente un distacco da chi abita gli altri contesti, ovvero da ciò che chiamiamo “pubblico”. Proprio qui si apre la questione etica. È giusto e proficuo che l'arte rinunci alla relazione con il quotidiano e con la gente? Ognuno di noi darà la sua risposta. Quanto vorrei sottolineare in conclusione è che, almeno, non si può negare che molto non quadri. Dato lo stato critico perdurante del nostro mondo, che assume caratteri inediti e sempre più gravi, ci sarebbe bisogno che l'arte vi si confrontasse: perché servirebbe a lei e a noi. Non mi riferisco a opere di esplicito carattere politico o sociale, ma a opere che prendano le mosse da uno stato di necessità e che pongano le condizioni per un dialogo allargato, non solo mirato agli specialisti dell'arte. Cioè dedicarsi alla vita, più che al riconoscimento da parte di un sistema ristretto ed esclusivista.

La transizione cui facevo riferimento, con senso di speranza, è proprio questa, che l'arte si assuma di nuovo il rischio di essere linguaggio parlante (pur sempre interrogativo) e non mera interrogazione su di sé (rispetto alla seconda prospettiva, mi pare, l'interesse risulta davvero minimo; maggiore è la stanchezza). Quindi i bordi non come orgogliosa fuga dal banale quotidiano per chiudersi in una torre d'avorio di soli adepti - inizio di ogni narcisismo e mancanza di discernimento - né come arroccamento sdegnato e provocatorio, perché anche questo è ormai un mito romantico consunto: vedo i bordi come continua intersezione tra quella cosa strana, inesauribile, rivoluzionaria che è l'arte, e la società di cui si è parte responsabile.


Doppio Uroboro. Appunti per un'installazione immaginaria. 5', 09"

Paola Pietronave

n°15, aprile 2022

 

Stagnazione secolare.

Il tempo scorre in avanti e, contemporaneamente, all’indietro in un tutto che equivale al nulla e che accade di continuo, in un divenire senza sosta.

Cambiano le sembianze delle cose, alcune forme riemergono, riappaiono come segnali o reminiscenze di sogni, sempre uguali, sempre diverse. 

Déjà-vu di vite mai vissute. Il loop si interrompe per pochissimo, illusione di ossigeno, in realtà il morso ha soltanto allentato la presa un istante, per poi riprendere con questa danza a spirale.

 

 

 

Il lavoro è pensato per essere ascoltato in loop e sono state immaginate alcune possibilità di installazione: 

 

A) in un lato della sala, o in un punto dove sia presente una presa elettrica.

Issare una tenda, utilizzando un filo da agganciare al muro o alcuni paletti. Il materiale con cui è realizzata la tenda sarà tessuto da me con materiali specifici pensati per il progetto e il luogo. All’interno è steso un tappeto e sopra di esso un altro tappeto o un piccolo giaciglio sui cui accomodarsi, e vari oggetti e generi di conforto: libri, pietre, un bollitore, una piccola luce, una presa elettrica per ricaricare il cellulare e gli altoparlanti che potranno essere installati in alto con cuffie per un ascolto privato o su una sorta di comodino fatto con una cassetta della frutta per un ascolto intimo ma diffuso, come una trama sonora che riempie l’ambiente.

 

B) in una piccola scatola di cartone, che nasconde l’altoparlante al suo interno e ne cambia i suoni, da posizionare nell’ambiente.

 

C) nel bagno, su una mensola o in un punto poco visibile, forse accompagnato da un poster con una grafica dedicata.

 

 



L'attesa

Yari Miele con Vittoria Chierici, 2021-22

n°15, aprile 2022

 

Nelson Mandela. The Window, 2002

 

L’altro suggerimento che volevo fare ad amici pittori era di dipingere dalla finestra. Un tema peraltro storico, questo della finestra.

Ne ho parlato con qualcuno ed in particolare con Yari Miele.

Poi siamo stati a Cantù dove abita Yari in una fabbrica di finestre e da lì a Como per rivedere i grandi astrattisti della scuola di Como e per forza di cose la straordinaria architettura della Casa del Fascio di Terragni. Ci siamo fermati a bere un caffè al Bolla dove c’è una parete con delle piastrelle di Fausto Melotti.

L’astratto di Manlio Rho mi ha impressionato nonostante io venga da tutt'altra scuola, più gestuale depisisiana nella mia formazione italiana e gestuale per quella americana. 

Rho mi ha fatto pensare ad una risoluzione diversa della prospettiva, già diversa grazie alla fotografia in quanto la geometria ortogonale era già stata sostituita dagli impressionisti dalla luce e quindi dall'effetto di profondità di campo.

Nelle opere di Rho una trasparenza a strati per guardare attraverso, quasi un precursore del 3D e qui ci si domandava oggi quale rapporto c’è tra la composizione, la forma e il guardare in condizioni contemporanee…

L’arte è un problema di affermazione del visivo ma non solo, è questo che la rende complessa. E i rapporti tra i significati; nella sintassi mai rigida sempre in evoluzione nella sperimentazione che vede la forma delle cose in rapporto al pensiero che nasce dalla cultura di un gruppo. Un rapporto che può essere dialettico conflittuale interrotto mai decisamente definitivo. Un rapporto tra la percezione e la materia.

Ho l’impressione che dopo questo caos, il pandemonio dell’epidemia anche la cultura e l'arte dovrebbero prendere un altro corso. Perché è nella natura dell'arte adattarsi alla contingenza e interpretare anche ciò che non appare.

Siamo stati a Cantù prima della pandemia. Ci interessava riprendere il discorso della finestra sia da un punto di vista della pittura astratta che da quello architettonico. 

Mi ricordo della gentilezza di Yari a portare in giro per il nord della Lombardia un’artista non più giovane come me, di una generazione diversa dalla sua con idee sull’arte forse antiche, classiche, ma con la comune proposizione di far rinascere questa distanza di chi guarda attraverso il tempo. Quello del quotidiano e quello della storia. 

Abbiamo studiato le cornici delle finestre di acciaio nella fabbrica di Cantù. Gli scheletri della soglia da cui fare un passo verso il vuoto, l’esterno. Così come gli strati dell’astratto compositivo della scuola di Como e le grandi finestre dell'architettura di Terragni: un corpo unico, solido di vuoti e di strutture portanti. Di bianchi e di neri.

Poi sono ripartita ma per tornare sempre allo stesso punto.

Perché anche questo è un significato della finestra: la stabilità della sua cornice e l’apertura al desiderio.

Oltre l’apertura prospettica del cenacolo vinciano, come in Vermeer la luce dalla finestra entra a illuminare la scena nell’interno. Ricordi che in Van Van Eyck (1434) la finestra moltiplica lo spazio e il set del dei protagonisti come in Velasquez. Solo più tardi la finestra diventa una vera e propria metafora, ovvero la ‘soglia’ tra il dentro e il fuori, tra il micromondo e il macromondo, tra il calore e la sicurezza degli affetti familiari e l’infinito spazio sconosciuto, aperto alle avventure e ai desideri, ma anche al rischio e al pericolo. 

Un’apertura è un limite. Un filtro che si apre e si chiude: unisce e separa. Dove apparire o nascondersi. La finestra significa anche attesa. In fotografia è l’inquadratura. Un modo di guardare.

Ho ripreso un piccolo disegno a pastelli di Nelson Mandela quando era incarcerato. Sbarre che separano il buio della cella dalla luce del paesaggio di fronte. Perché se osserviamo l’esterno spesso lo facciamo frontalmente dalla posizione del "wanderer", il personaggio visto di spalle del dipinto di Friedrich. Ossia lo spazio del sogno, dell’inconnue, di ciò che ci è misterioso e che ci piacerebbe scoprire.

Tutti dicono che questa della pandemia sia una situazione temporanea e che poi tutto tornerà alla normalità. Non ci credo. Se siamo fortunati, la pandemia diventerà endemica. Una popolazione mondiale soggetta sempre alle malattie, perché debole. Penso inoltre che la globalizzazione sia finita, così come (e lo dico da tempo) sia finita la società dello spettacolo. Ossia tutte le istituzioni del dopoguerra sono in via di estinzione.

Sarà molto importante capire la possibilità per noi artisti visivi non solo di esibire il nostro lavoro nel dopo COVID 19 ma anche di fare arte che abbia due significati: di invenzione e di distanza.

Cito Schopenhauer perché in questa breve frase risponde con chiarezza al nostro progetto.

"La lontananza che rimpicciolisce gli oggetti per l’occhio, li ingrandisce per il pensiero". 

Vorrei qui fare un accenno ad una nostra idea che caratterizza l’artista nell’arredo urbano di oggi. La finestra dunque anche come vetrina. Come luogo di sfondamento dell’osservazione: guardare da vicino ciò che è lontano. Come partecipazione attiva di chi osserva: come intervento diretto della proiezione di fatti e di idee.

 

Yari Miele ha prodotto importanti installazioni basate sulla geometria della cornice da cui abbiamo pensato di realizzare tempo fa una finestra, un tema classico nella storia dell’arte. Io, Vittoria Chierici, a New York ancora studente della School of Visual Arts, partecipai, negli anni 80, all'apertura di uno spazio espositivo, una vetrina in pieno centro a Manhattan. Si chiamava "The Parallel Window". Hanno esposto anche artisti italiani, come il pittore bolognese Piero Manai, l’artista concettuale Mariella Simoni e l’artista americano notissimo in quegli anni colpiti da un’altra pandemia, l’AIDS, David Wojnarowicz. Di recente ho partecipato ad un altro esperimento espositivo, quello della vetrina alla Libreria delle Donne di Milano.

Unendo queste due esperienze, quella delle sculture installative di Yari Miele e quelle mie di curatrice ed artista in spazi espositivi alternativi è nata l’idea di una finestra- vetrina, intesa quale opera smontabile, in grado di cogliere sia lo sguardo del passante che, al proprio interno, documenti audio - visivi attuali dei cittadini. La vetrina diventa non solo una finestra, come riferimento storico di tanti stili, da quello Rinascimentale a quello Futurista, ma anche una "teca" nelle vie della città che ricorda un cambiamento del mondo inaspettato.   

 

Ho l’impressione che dopo questo caos, il pandemonio dell’epidemia adesso la guerra la cultura e l'arte dovrebbero prendere un altro corso. Perché è nella natura dell’arte adattarsi alla contingenza e interpretare anche ciò che non appare.

 

Facendo il punto:

naturale e diretto per me vuol dire istintivo, il talento.

Non fare del mondo uno spettacolo, ma guardare allo spettacolo del mondo, come diceva Pessoa, con la capacità di leggere la vita in un certo modo, da artista, in quanto persona diversa.


Sulla linea

Roberto Limonta, 

n°14, marzo 2022

 

Si può vivere sul bordo? Verrebbe da scrivere: a cavallo del bordo, come si dice “a cavallo della staccionata” o “a cavallo del secolo”. Perché il bordo è una linea sottile, affilatissima; un non-luogo, l’ipostasi linguistica di una differenza, di uno scarto che non occupa posto, che non è anche se lo vediamo. Heidegger e Jünger ci hanno provato (Oltre la linea, Milano 1989), scambiandosi lettere sul nichilismo (la lama tagliente del loro bordo) con la paziente frenesia di giocatori che sganciano briscole sul tavolo. La conclusione è che si, si può e anzi si deve vivere sul bordo, sul crinale del nichilismo. Cavalcarlo, per così dire, oscillando tra il rifiuto (anacronistico) e l’accettazione (ingenua) di quello che è lo spirito del tempo. Non c’è altro luogo dove stare.

 

E tuttavia il loro è pur sempre un pensarlo, non viverlo. Si potrebbe obiettare che pensare è una forma del vivere, o che comunque non è possibile (per quanto ne sappiamo) pensare senza essere vivi. Tuttavia la vita non ha altri luoghi oltre ai propri: non si vive per procura, in una lontana colonia, ma si vive sempre qui, adesso, in questo luogo. Posso pensare l’oltrevita, ma quando mi ci ritrovassi, non potrei far altro che viverlo, e viverlo lì. In paroloni, l’oggetto della vita è immanente ad essa quanto quello del pensiero può esserle trascendente. Pensare il bordo del nichilismo, invece, è sempre possibile, anche dalle pareti di legno stagionato della baita di Heidegger. Si tratta quindi di riflettere su cosa significhi “vivere sul bordo” (metto tra parentesi l’espressione, perché forse è appunto solo una formula linguistica, come la chimera di Rabelais che, penzolando nel vuoto, si nutre di intenzioni seconde), indagare la sua irriducibile differenza: mediare tra due estremi, mantenendo un piede da una parte e uno dall’altra? Annullare le differenze tra gli spazi che delimitano il confine, in nome di una medietà che possa così trovare luogo e definizione? Fissare il punto di passaggio di un gradiente, come in una scala cromatica dove a un certo punto un colore diventa un altro? Individuare il punto di resistenza, la soglia critica, l’angolo cieco dell’esistenza? Le domande sollevano questioni: problemata, “cose che ci poniamo di fronte”. Eppure anche questo è un modo di vivere, e non dei peggiori.


Autoritratto

Giancarlo Norese

n°14, marzo 2022

 

Autoritratto, Roma, 2021


Una notte d'estate in Filandia

Elena El Asmar e Luca Pancrazzi

n°14, marzo 2022

 

Caro Luca,

ho attraversato i tuoi quadri molte volte, di notte e di giorno, da sola e in compagnia, ho visto i soggetti dai quali sei partito armato di una macchina fotografica e un aeroplano. 

Ho passeggiato lungo le montagne dell’Engadina con te e abbiamo visto i laghi che evaporando andavano a confondersi con il paesaggio d’intorno.

Il paesaggio della montagna, di ghiacci e ghiacciai, di laghi, di fiumi, di nuvole e piogge, è un susseguirsi di tratti in continua trasformazione, cade la neve, si scioglie, si posa dolce sulla terra, si sposta, sposta la percezione di noi, come anime migranti in continua trasformazione.

Abbiamo guardato molte nuvole insieme e i nostri pensieri si sono spesso mischiati alle nuvole stesse, una pennellata liquida, il fumo della mia sigaretta, una canzone suonata nell’aria, una tela in cotone che aspettava di essere consumata da lente velature di bianco. 

 

Ho osservato le tue nuvole dipinte su un quadro e ho visto come la pittura sia in fondo un atto di amore e generosità, s’impossessa delle cose del mondo e poi le restituisce sotto veste nuova, come fossero immerse nell’insieme dei rimandi che tali cose evocano, e ne suggerisce gli echi, le distanze, i sogni. 

Se chiudo gli occhi e mi concedo la possibilità di sottrarmi al tempo come narrazione, mi accorgo del movimento che la pittura mi invita a compiere. 

Ho bisogno di perdere i riferimenti che per una brevità hanno scritto quella che sono e per reinventare i miei mondi, mi fido della tua parola, accetto di stare in quest’ora incerta scardinata dal tempo, dove il segno mi invita.

 

Il presente è dipinto su un quadro, io divento il paesaggio restituito attraverso il gesto pittorico, la montagna che ho di fronte è uno specchio e io che osservo la montagna sono un paesaggio acquatico che, come l’acqua, vive in un continuo cambiamento di stato.

“L’acqua la insegna la sete” scriveva Emily Dickinson, così il desiderio alleggerisce il corpo attraverso la fantasticheria e accetta di tornare a un’idea di casa mobile, instabile, liquida. 

Le nostre biografie sono disegnate al crepuscolo.

 

Tra il sonno e la veglia, nel passaggio dopo la notte, il mondo pare trovare conforto in questo continuo mutamento, il cielo ha cancellato le stelle, le nuvole scorrono intorno insieme alle parole che si mischiano al giorno e l’aria si fa tersa, il fumo disegna le ore e io aspetto che torni a piovere sui nostri domani. 

 

Elena El Asmar 

(in una notte d’estate in Filandia)


Cara Elena,

come posso non scriverti, e come posso evitare di esserti vicino, anche se l’ho fatto qualche volta.

Questa dimensione della notte, della distanza che la notte consente, permette di vedere e sentire il fuori, il fuori da noi in cui siamo totalmente immersi, in cui sono immersi tutti eccetto noi, veramente, per questo ti scrivo, di notte, mentre non dormo accanto a te pensando a te.

Noi siamo qui, e mentre lo sono, rimango immerso in una notte che è come lo spazio stesso della pittura da cui emergono i residui depositati della diluizione estrema del mio acrilico bianco.

 

Sulla tela si lascia depositare, attraverso il veicolo acquoso che assorbe e diluisce, lo stesso bianco di cui è fatta la luce, di cui sono fatte le montagne stesse e la vita.

Sono qui con te, ma distante, troppo, sempre, e cosa cerco?, dove sono?, cosa osservo?, cosa mi può portare lontano da te e dalla pittura se non l’osservazione del mondo, di porzioni di mondo, osservate e poi ridonate. 

Mi alterno, mi allontano e mi avvicino, e con questi passaggi definisco il confine ed il tempo di una relazione, individuale e soggettiva con la vita e con l’opera che si allontana da me sollevando domande senza risposte apparenti.

 

Diluisco i colori in maniera infinitesimale, e in questa pittura omeopatica la memoria conduce a rappresentazioni simbolicamente fluide, a tempi liquidi e a memorie ancestrali, come nei disegni sul pavimento di pietra fatti con l’acqua, che si cancellano appena questa evapora, nei miei quadri ho l’impressione di fare la stessa cosa sino a che, ad un certo punto inizia ad affiorare tutto il lavoro che mi pareva fosse evaporato.

 

E scopro che è il tempo e l’acqua il veicolo ed il legante per questa materia fatta principalmente di luce più che di pigmento. 

 

L.P.

(la notte dopo di quella precedente, in Filandia)


Sovrapposizione di due vuoti

Una riflessione in equilibrio sul bordo del significato e il suo limite

Luca Scarabelli

n°13, febbraio 2022

 

Sovrapposizione di due vuoti, 2020, cartone

 

Trattasi di cartone ritagliato. Un frammento di una scatola di scarpe?

È appeso al muro.

Il bordo non è semplicemente un al di fuori, né semplicemente un all’interno, in Sovrapposizione di due vuoti  il bordo è come la linea in natura, va pensato. Lo vedi, è lì, ma devi guardarlo due volte, ri-guardarlo.

Questo bordo non è un ornamento e non è cornice. Non incornicia. Non è sfondo. Non è un disegno. Non è immagine. La realtà è oltre il suo essere contorno e i suoi margini.

Segnala, racchiude idealmente due vuoti e i resti di una conversazione. Proietta un’ombra.

È uno spazio bordato, (a-bordo).

Due vuoti. Lo spazio “ritagliato” del muro (il vuoto della parete) e il vuoto del soggetto.

Il vuoto dell’io.

Il punto non è l’immagine, ma questa “cosa” che viene accolta, dopo che l’immagine si è presentata come un incantesimo, dopo che l’immagine se ne è andata e ha lasciato il posto alla sua memoria. La tensione del vissuto.

È un lavoro che si completa togliendo. Il taglio segue la forma, è in accordo con la forma e crea uno scenario, un “territorio” che è a favore del vuoto.

Non c’è sublimazione senza vuoto. È un lavoro nato dal mio incontro con il vuoto.

Da una mancanza.

Un vuoto bidimensionale che ha l’aspetto plastico del bordo, il carattere paradossale del bordo, terra nullius, frontiera estetica e psicologica. Un mondo privo di mondo.

Il bordo come fortezza e muro della psiche; se sei troppo vicino non lo vedi.

Nella distanza lo sguardo scivola dentro quel bordo e lo percorre lungo le sue piccole pareti quasi terremotate da sommovimenti e slabbrature che sono piccole ferite che si fa fatica a mettere a fuoco.

Una finestra a losanga sul vuoto?

In fondo è un rettangolo che fa esperienza del fallimento, che è crollato, un rettangolo (pensiamolo anche come parte razionale, fedele, strutturata della vita) si è dis-fatto.

È un rettangolo che si è lasciato andare alla gravità.

E scivola nel tempo.


Le sfaccettature della complessità

Barbara De Ponti

n°13, febbraio 2022

 

Avere a disposizione tutte contemporaneamente le sfaccettature della complessità nei suoi numerosi linguaggi: ecco la grande opportunità della ricerca artistica che attinge da studi scientifici, umanistici e fonti di archivio. A volte restituendo, grazie all’acquisizione di relazioni forti, una visione profetica, capace di leggere il passato interpretandolo come indizi di ciò che avverrà.

Gli esempi, numerosi, arrivano da lontano perché l’interconnessione è insita nell’essere umano, come ha sempre sostenuto Primo Levi che salda la divisione tra arte e scienza definendole unitamente “cultura umana”: basti pensare all’enorme successo che già nel 1610 riscosse Sidereus Nuncius, il libro che Galilei scrisse dopo le osservazioni con il cannocchiale della superficie lunare e dei satelliti di Giove; non è quindi una necessità recente, ma recentemente proprio queste relazioni ci hanno risvegliato con forza.                                                     

Così i bordi si dileguano.

Non sono necessari neppure come semplici termini identificativi, solitamente usati per confermare equilibri tra ambienti, solo apparentemente, distanti ma naturalmente in correlazione. Come quando ti permettono di legare la sapienza di Francesco Cataluccio che cita Walter Benjamin, quando recupera da Ernest Bloch uno dei concetti cardine del suo pensiero, con la strategia metamorfica che il girino utilizza da circa duecento milioni di anni: “Irruzione nel presente di una esigenza che viene dal passato, non nel senso di una restaurazione di ciò che fu ma in vista di una nuova e originale esperienza del presente. Il passato, in determinate occasioni, irrompe con le sue esigenze nel presente facendolo saltare. Stiamo quindi parlando di un passato che non avrebbe esaurito le sue possibilità nel momento in cui accadeva, un passato cioè che conterrebbe una sorta di slancio verso il futuro”.

Dalla biologia sappiamo che il collagene è la proteina più comune nel corpo degli esseri viventi animali, uomini compresi, che lega i tessuti tra loro. E’ costituito da amminoacidi di cui ogni molecola, di una forma specifica tridimensionale, è la somma tra dieci e cinquanta atomi di carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno e a volte zolfo. La proteina è l’insieme di centinaia di queste molecole che ricordano una stringa, molto resistente grazie al legame fortissimo tra un atomo di carbonio di un amminoacido e un atomo di azoto dell’amminoacido successivo. Disporre di una sostanza durevole e robusta per sostenere la struttura portante del proprio corpo è una ottima opportunità. Ma è importante considerare il costante rimodellamento che la crescita, nel trascorrere del tempo, richiede all’animale. Questa è la premessa del perché la metamorfosi degli anfibi sia esemplificativa per rappresentare il concetto enunciato inizialmente.

Ecco il girino: la trasformazione in rana prevede che la coda dell’animale nella sua fase neonatale venga gradualmente riassorbita dal corpo. Gli arti posteriori della rana adulta sono costituiti dalla carne della coda, che non viene persa, ma disassemblata partendo dalle fibre di collagene grazie agli enzimi che poi saranno gli esecutori anche del riassemblaggio. Una spinta, non solo simbolica, verso il futuro determinata dal passato.

Le rane sono presenti su questo pianeta esattamente da quando comparvero i dinosauri, senza estinguersi. L’arte si è da sempre interessata a questioni legate alla natura del tempo contribuendo a nuove visioni in altri ambiti in cui l’uomo ha posto i medesimi quesiti.  Con questo approccio nasce il progetto Clay Time Code, studiando l’archivio geologico e l’uso delle immagini di fossili, i nannofossili marker, o meglio le loro icone, come strumenti indiretti per datare il tempo, il tempo geologico, tempo lunghissimo non dell’esperienza umana. Si riflette anche sul fatto che lavorando oggi con l’argilla si possa creare un’opera usando un materiale che si è formato intorno ai 4,5 milioni di anni fa, per tornare a Benjamin. 

Concetto questo alla base anche di It’s Time to Sprout; in collaborazione con l’Erbario di Palermo, il progetto indaga il processo di scelta che i semi attuano per definire il momento ideale per la sbocciatura, che può avvenire anche dopo secoli.

Il passato irrompe nel presente anche nel progetto Alpina, ricerca affrontata con Fabio Marullo partendo dall’esperienza comune del campo glaciologico sul Ghiacciaio dei Forni; le scienze naturali e la glaciologia ci accompagnano a sfogliare il ghiacciaio come un libro di storia che, quando aperto, mette a disposizione i documenti pronti per essere interpretati. Il ghiaccio preserva inalterata la presenza della vita nel momento della propria formazione e la disvela quando allenta la forza, sciogliendosi e divenendo quella linea d’acqua che collega la montagna alla pianura e a tutti noi. Il cambio di stato permette di riproporre nel presente ciò che il freddo e la pressione aveva fissato decenni, secoli e millenni prima, mettendolo in circolo e riattivandone non solo la memoria.

 

Enzimi sul sentiero glaciologico dei Forni, 2021, progetto Alpina


I nodi

Angelo Ricciardi

n°13, febbraio 2022

 

Vi aspettavo” – disse orgoglioso il pettine guardando i nodi.

Stremato, il tempo aggiunse: “Fanculo a tutti! Io mi tiro fuori!

 

 calendari in affanno cercavano giorni

e orologi stremati lancette perdute

inquiete le agende imploravano date

 

ragione e memoria

monopolio di macchine

disperso sui social                                                                

                                                                                                                – gli affetti si dimenticano in fretta –

il nostro sentire

 

carte al vento

spiagge senza sabbia

chip disconnessi

miniature di noi stessi

dimenticammo baci

 

episodi di intolleranza in Africa nei confronti degli occidentali colpevoli di aver importato il virus

 

i sopravvissuti verranno estratti a sorte

 

 

Napoli, 29 marzo 2020

Archivio Angelo Ricciardi, ad vocem: lockdown


Un pezzo facile: istruzioni di montaggio

Roberto Limonta

n°12, gennaio 2022

 

Il testo va innestato sul perno concettuale (sostituire con “insiste sul pivot concettuale” nella versione definitiva) costituito dal fatto che anche il termine “bordi” è un oggetto (linguistico, grafico, fonetico) ed è di conseguenza dotato di un bordo, di estremità tramite le quali prende le distanze da altri oggetti, dallo sfondo della realtà e in fondo da sé stesso (in che senso? Lasciare comunque nel testo). Sottolineare en passant che lo stesso potrebbe dirsi di qualsiasi oggetto, esistente o inesistente, che è tale in quanto definito dai propri confini identitari, ma insomma… (chiudere in glissons, in modo da ottenere rispetto per la singolarità del punto di vista e al contempo fugare l’accusa del cavillo sofistico). I due bordi sono la lettera “b” e la lettera “i”, ovviamente (inserire l’avverbio nel testo), e ciò significa intendere il termine in suppositio materialis (senza spiegazione: lasciar agire sul fondo, come l’ombra in un chiaroscuro). Ci si muove quindi in un contesto che prescinde dal contenuto semantico o che quantomeno non ne fa il focus dell’analisi (forse che i bordi possono esistere anche senza un centro, un nucleo di significato, colonne di un tempio che non esiste? Valutare se esplicitare il dubbio o se sia meglio mantenersi allusivi). L’attacco del pezzo va calibrato con cautela, perché la trovata – occorre ammetterlo – è di grana grossa e non fa conto di giocare sull’effetto shock; meglio puntare a una complicità più tiepida ma affidabile: un’increspatura del labbro superiore, l’accenno a un moderato compiacimento nella contrazione del muscolo zigomatico minore (anche quello maggiore andrà bene), un brillio fugace, come il fantasma timido di un’intuizione, nell’iride (non la pupilla) del lettore. Tanto basta, e basterà.

 

Proseguire in modalità tema libero. Le due estremità linguistiche di “bordi” sono bordi solo intendendo “bordi” come termine linguistico (mantenere retoricamente la ripetizione anaforica del termine). Se fosse un segno grafico, confini sarebbero anche le estremità in alto o in basso dei caratteri: l’asticella della “b” e della “d”, ad esempio, o il basamento della “i”. Lasciare la questione in sospeso, simulando understatement con la disinvoltura di cui si è capaci. Qui l’uso di congiunzioni e avverbi di modo andrà calcolato con grande accuratezza: il lettore deve sentire la divagazione sul tema come lo stile del pezzo e il suo prezzo. Evitare accuratamente le manovre dilatorie, i sotterfugi, i depistaggi di chi brancola nel buio cercando appigli in esangui barocchismi linguistici. 

 

Passare senza indugio a esporre il cuore del ragionamento. In breve, lo sviluppo è questo: definire il bordo linguistico, sottolineando che in questo modo lo si pone in relazione con altri bordi, altri confini, altri termini; far notare che, così facendo, il bordo si costituisce come anello di congiunzione del tessuto linguistico (utilizzare in ordine sparso formule quali “motore semantico del testo”, “sinapsi morfologica”, “molecole sintattiche”); inferirne che la sua natura non è la marginalità come insignificanza, al contrario il bordo, dalla periferia morfosintattica dell’impero per così dire, governa la composizione degli enunciati; ricordare che la sillaba finale della parola (desinenza) identifica il genere e dunque è decisiva nella definizione dell’oggetto (evitare riferimenti al dibattito sulle differenze di genere nel linguaggio). Il testo dovrà abbondare di vocaboli tecnici, meglio se aggregati tramite aggettivazione: di conseguenza, bene termini come “enunciato”, “sinossi”, “particella linguistica”, ma soprattutto perifrasi quali “periferia morfosintattica”, “anafora del bordo”, “insistita paratestualità dei lessemi”, “marginalità affabulatrice”; o anche espressioni fuori contesto come “core business della semantica testuale”, “pivot sintattico”, “parassita ontico” e così via.   

 

Chiudere sull’inedita immagine imperialista e colonizzatrice del bordo (senza clamori, ma lasciando intuire qua e là che qualcosa ribolle sotto), margine centrato e centrale (mantenere l’endiadi), forma linguistica di una dialettica servo/padrone dove il primo, hegelianamente, subordina a sé il secondo (insistere sul paludamento hegeliano della chiusura, che altrimenti rischia di essere piuttosto debole). Oppure sparigliare le carte con un finale spiazzante, tipo: “Non c’è modo migliore di scorgere quel tempo che freme, quel margine ostile di un inchiostro slavato; forse si può ancora leggerlo, con l’aiuto di uno di quei dizionari dalle pagine rossastre ormai ossidate, nei versi del Cimitero marino di Valery: E il cielo canta all’anima il consumo / Le rive che si mutano in rumore?”. La citazione va scelta per la sua contiguità semantica con il tema ma evitando ogni effetto didascalico: resterà soltanto un vago sentore, un’eco eterea e lontana, intellegibile quanto basta per poterne seguire le tracce ma senza che si possa fissarla in una forma verbale, un sussurro indecifrabile che si allontana nella pianura, l’ombra di un filo invisibile capace di esistere solo tramite la sua assenza umbratile (“assenza umbratile” nel testo).


Limen

Antonio Catelani

n°12, gennaio 2022

 

Limen, 2012, olio su tela, 137x92 cm


Promemoria

Olivia Vighi

n°12, gennaio 2022

 

La basilica dei Frari è gloriosa per la sua capienza.

Ai lati i monumenti funebri a Tiziano e Canova, gli altari e le cappelle ai margini, il grande corpo del coro al centro e nel presbiterio, il capolavoro di Tiziano.

Ci si perde in un vuoto tra le grandi, enormi colonne e la tipica pavimentazione delle chiese veneziane, una scacchiera in continuo sgretolamento.

Allo spazio di quel vuoto vorrei sovrapporre, per mia indole all’osservazione, la visione e, più precisamente, il tempo della visione.

Chi prima di me analizzò le virtù dell’occhio, permise di rendere accessibili le sue potenzialità. L'osservazione, in termini di tempo, innesca il dibattito dentro il perimetro del campo visivo, mi riferisco ad uno spazio invisibile, infrasottile, nel quale la ripetizione dello sguardo diviene contemplazione.

In questa dilatazione la visione è azione e innesca una continua metamorfosi dei confini, una dimensione nella quale risiedono i significanti e l'intuizione individua e indica le direzioni che conducono alle forme.

Le riflessioni percorrono i bordi di questo tempo, delineando la comprensione e l'attesa di un divenire. Uno spazio nel quale la sperimentalità è pratica e la relazione tra i confini è condizione unica del possibile.

L’esplorazione ad occhi aperti conduce a nuove letture e a nuove espressioni,  premesse utili affinché si possa decodificare, infine, questo tempo “perduto”.


Storia di una cartolina

Giovanni Bai

n°12, gennaio 2022

 

Abito ormai da dieci anni nella casa in cui sono cresciuto e, dopo la morte di mia madre, sono tornato a vivere dopo trent’anni. Nonostante svuotamenti, rovesciamenti e adeguamenti ci sono sempre alcune piccole nuove scoperte, o ritrovamenti di cose già trovate e poi dimenticate.

 

Trovo in un cassetto un pacco di cartoline del secolo scorso: gran parte sono indirizzate ai miei genitori, diciamo nella seconda metà del secolo. Ve ne sono alcune più vecchie, inizio novecento. Mi riservo di esaminarle più attentamente, forse, in un altro momento. Una delle poche che casualmente guardo è indirizzata a me e mi colpisce per le annotazioni del postino relative al civico inesistente, anche se, evidentemente, a seguito di una (non difficile, credo) ricerca l’errore è stato corretto e la cartolina è stata recapitata.

 

Nel pomeriggio proseguo la lettura del libro di Marco Belpoliti Il tramezzino del dinosauro. 100 oggetti, comportamenti e manie della vita quotidiana, e alla voce Numeri civici leggo: "La lettera reca il mio nome e cognome ed è indirizzata al numero 12 della via dove abito. Il mio numero civico è invece il 15. Sono circa cinquanta metri di distanza. La lettera ritorna al mittente con la dizione: Destinatario sconosciuto. Possibile che il postino non conosca gli abitanti della via, e non abbia avuto modo di correggere la svista? E dire che, nonostante le e-mail, di posta ne ricevo ancora parecchia. Eppure per colui, o colei, che recapita le missive delle Poste Italiane della via dove risiedo, sono uno sconosciuto."

 

È proprio lo stesso caso della cartolina ritrovata poche ore prima: e la prima reazione è di farne partecipe Marco, cui invio una mail: "caro Marco / ieri mattina ho trovato in un cassetto la cartolina di cui allego immagine / nel pomeriggio l'ho ritrovata nel tuo Tramezzino del dinosauro. / Sono casualità che mi piacciono / ciao / G". "Che stranezza! / Un abbraccio / Marco", la sua risposta, quasi immediata. E subito dopo vado a riesaminare il pacco delle cartoline. Tra le altre una degli stessi amici, dell’anno precedente. Anche qui il numero civico è sbagliato: 2 invece che 3, ma quella volta era stata recapitata senza problemi…

 

Tra le tante cartoline ne trovo una inviata all’inizio del novecento da Trieste (allora Regno di Kakania] a Senna Lodigiana (Milano Italia) senza indirizzo né numero civico…

 

Ripenso a una delle considerazioni di Belpoliti: "Provo a immaginare come se la caverebbe il mio postino se svolgesse il suo lavoro a Tokyo; lì i numeri non sono disposti in modo progressivo lungo le strade, bensì seguendo la cronologia degli edifici: sono stati attribuiti alle case in base alla loro edificazione, cosi il numero 1 può essere vicino al numero 30 e il numero 2 al numero 12"... ma, soprattutto mi sovviene di altre cartoline ritrovate, sempre tra i reperti di famiglia, molti anni prima, forse cinquanta, e che avevano ridestato la mia curiosità già una trentina di anni fa, per poi ritornare nell’oblio.

 

Una di queste (nella illustrazione i templi di Nikko) è stata spedita dal Giappone e non reca alcun indirizzo specifico oltre il nome del destinatario, anche se accanto al nome della città di Carugate (tra due distinte parentesi) compaiono Milano e Italy.

 

Più interessante la seconda cartolina, che mi aveva colpito sia per l’immagine che per l’indirizzo ancor più rarefatto. La cartolina è stata spedita da Shanghai nell’agosto 1901 e ci mostra dei corpi decapitati, con la didascalia EXECUTION OF BOXER LEADERS, mentre i saluti sembrano involontariamente ironicamente minacciosi: "…mi ricoderò sempre di lei".

 

La rivolta dei Boxer è terminata, ma non sono certo tempi tranquilli, eppure l’ufficiale postale non deve aver avuto alcun dubbio nell’inviare la carolina verso la giusta destinazione, sebbene l’indicazione del destinatario sia semplicemente "Al nostro Signor Secretario. Carugate".

 

Come non pensare al postino di Belpoliti?