L'artista emancipato

settembre 2021

 

Se un territorio condiviso tra due interlocutori è certamente necessario per ogni forma di comunicazione, non è però detto che autore e lettore debbano condividere anche le finalità del discorso. Pure, questo sembra un prerequisito nel caso di molti interventi critici “impegnati”, in cui l’autore dà per scontato che anche i lettori ritengano necessaria la prospettiva di una critica radicale di sinistra per la formulazione di qualsiasi discorso critico serio. È questa la sensazione che ho provato leggendo l’articolo, peraltro brillante e rigoroso, di Melanie Gilligan, The Beggar’s Pantomime[1], una lettura che mi ha spinto a ripensare all’annosa questione dell’arte impegnata.

 

Partirò da una domanda: è davvero così ovvio che in un’opera artistica o letteraria si debbano ritrovare le convinzioni politiche dell’autore? E se questo non avviene, si tratta di una mancanza dell’opera e/o di un’incoerenza da parte dell’artista? Personalmente, tendo a dare una risposta negativa a entrambe le domande. Il presupposto da cui muovo è il seguente: l’arte, in generale, è una faccenda che trascende necessariamente la volontà dell’artista. Laddove ciò non si verifichi, laddove cioè l’opera non trascende le intenzioni dell’artista, essa si rivela un’illustrazione – più o meno bella, più o meno complessa, più o meno interessante – di alcune idee; ovvero – e qui si chiude il cerchio – essa non funziona in quanto arte. Ovviamente, il rischio dell’illustrazione riguarda idee filosofiche o religiose non meno che idee politiche.

 

La vasta tematica dell’impegno politico in arte, letteratura e teatro ha attraversato il dibattito culturale del XX secolo, vivacizzandolo, nonostante certe derive drammatiche o grottesche. Osservando quell’epoca dal nostro punto di vista, storicamente vantaggioso, ci chiediamo, al di là dei proclami, quali siano state le opere “impegnate” ben riuscite. Ciò che mi sorprende maggiormente non è tanto che tale conteggio restituisca un numero esiguo di nomi, quanto che questo deludente risultato non abbia prodotto, nel tempo, riflessioni generali sul fenomeno, o, se le ha generate, che esse non abbiano avuto la forza di diventare un comune presupposto delle discussioni su arte e letteratura.

 

Bertolt Brecht e Vladimir Majakovskij sono due massimi esempi di connubio riuscito tra arte e impegno politico del secolo scorso. Saper indicare dove risieda la grandezza di questi autori è una faccenda decisamente meno ovvia. Certamente la loro grandezza non si può valutare misurando la quota di impegno (ideologia applicata) che le loro poesie o pezzi teatrali contengono, poiché centinaia o migliaia sono state le opere prodotte da altri scrittori e poeti tanto o più ideologiche delle loro. Piuttosto, avrei la tentazione di dire che l’eroicità di queste due figure culturali sia consistita, al contrario, nell’aver affrontato volontariamente l’ideologia ed esserne usciti parzialmente illesi (il suicidio di Majakovskij non deve farci dimenticare i momenti di precedente entusiasmo). In altre parole, entrambi sono riusciti a intrappolare una parte dell’afflato politico/propagandistico (per sua natura corazzato, oggettivo, dichiarativo, non ambiguo) dentro a un tessuto poetico (per sua natura delicato, espressivo, soggettivo, ambiguo) – un’impresa davvero ardua. Autori grandi, dunque, proprio nell’essere riusciti a fare più e meno di quel che annunciavano i “programmi” da loro sottoscritti. L’ipotesi di un teatro “epico” – in cui lo spettatore mantenga sempre desta la sua capacità critica nei confronti dello spettacolo e della società – non può essere slegata dalla capacità che ebbe Brecht di conservare nel testo un fondo[2] non direttamente convertibile in ideologia (e proprio quest’ultima caratteristica rende conto della sua unicità, nonostante si proponesse, e sia stato adottato, come modello). Dall’altra parte, anche il più diretto e prosaico invito all’azione che Majakovskij ci rivolge da alcune poesie-proclami conserva, nella propria genealogia, un rapporto intimo con la lingua; rapporto che supera ed estende il valore “d’uso” del testo.

 

Ma non si tratta nemmeno solo della volontà di trascendere ideologie o programmi. Se è vero quel che dice il poeta e saggista Iosif Brodskij, che un grande scrittore è qualcuno che prolunga la prospettiva della sensibilità umana, allora questo prolungamento vale anche per lo scrittore stesso. Paradossalmente, l’opera è così il risultato di un atto volontario solo per quel tanto (o poco) che l’autore già sapeva di sapere prima dell’opera, e dunque per la parte meno innovativa di essa. Il linguaggio, come somma di regole e di opere già scritte, rappresenta una specie di forza naturale con cui l’uomo (l’autore) si confronta in ogni atto creativo. “Ci piaccia o no, siamo qui per imparare non tanto ciò che il tempo fa all’uomo ma ciò che il linguaggio fa al tempo. E i poeti, non dimentichiamolo, sono coloro “presso i quali il linguaggio vive”. È questa legge a insegnare a un poeta una rettitudine maggiore di quella che una fede, qualsiasi fede, possa ispirare”. Nell’affascinante prospettiva brodskijana è l’etica a discendere dall’estetica, e non viceversa.

 

Verso la metà degli anni ‘80 ebbi l’occasione di assistere a Milano ad uno spettacolo del Living Theater. Tra i vari ricordi positivi di quello spettacolo riaffiora anche un forte senso di disagio che, col senno di poi, mi spiego col fatto di essermi sentito un po’ manipolato. Di fronte all’invito/dovere di partecipare a quel rito (prendersi per mano, cantare etc) - un rito con uno scopo che potremmo chiamare di emancipazione - scattava in me un rifiuto istintivo. Forse reclamavo una distanza tra me e ciò che accadeva, il diritto a una mia interpretazione, foss’anche emotiva, libera e non direzionata. Il diritto a emanciparmi da solo… A questo proposito, trovo illuminanti le considerazioni di Jacques Rancière: “Lo spettatore è attivo, così come lo studente o lo scienziato: osserva, seleziona, confronta, interpreta. […] Compone la sua poesia con la poesia che gli si svolge davanti. Lui/Lei partecipa allo spettacolo se riesce a raccontare con le sue parole la storia che ha davanti. […] Presta attenzione alla performance nella misura in cui ne è distante”[3].

 

Nei primi anni ‘70, Harold Rosenberg scrisse che l’ultima e più coerente frontiera della performance, o happening, era rappresentata dalle manifestazioni politiche di piazza: lì pubblico e performer coincidono del tutto e l’azione, al di fuori di ogni simulazione, si fa davvero politica. Da un certo punto di vista, Rosenberg stava anche descrivendo il destino di tutte le forme d’arte (o anti-arte) che aspirano a quella presa diretta sulla vita che solo la vita stessa può avere: il crudele destino di dover mentire oppure sciogliersi per il calore emotivo prodotto dal processo di trasformazione da arte a vita. Conclusione non molto dissimile da quella cui giunge nel suo articolo la Gilligam, quando scrive, parafrasando Marx, che le performance artistiche sono destinate a ripresentarsi sempre, almeno in parte, come farsa. C’è qualcosa di amaro in questo, ma anche di disinibente. Prendiamo il famoso filmato I like America and America likes me, del 1974, che documenta i tre giorni che Joseph Beuys trascorse in una stanza insieme a un coyote. Credo che, vincendo un po’ di timore reverenziale per il maestro, qualcuno concorderà sul fatto che quel filmato ha un lato comico: lo “sciamano”, con una coperta sulla testa e un bastone in mano - proprio il fatto che Beuys non era un vero sciamano, ma un’artista, rende quella performance (anche) una pantomima farsesca. E tuttavia quell’opera rimane un geniale atto poetico: ambiguo ed estremo al tempo stesso, razionalmente ingiustificabile e distante da qualsiasi valore d’uso immediato[4], capace di aprirsi ad una ampia gamma di interpretazioni, dal tema della wilderness, alla guerra del Vietnam, senza mai risolversi in esse.

 

Infine, credo sia importante ricordare che non ci troviamo di fronte una dialettica tra due sole polarità - artista e pubblico; ce n’è una terza, tutt’altro che marginale: l’opera. “Questo spettacolo [o opera] è un terzo termine, al quale gli altri due possono riferirsi, ma che evita ogni genere di trasmissione diretta tra i due. È una mediazione tra di essi, e tale mediazione di un terzo termine è cruciale per il processo di emancipazione intellettuale”[5].

L‘opera arriva al pubblico non già come un pacchetto di significato, bensì come una piattaforma per elaborare diverse interpretazioni. Inoltre, l‘ideazione/creazione dell’opera è un processo che esorbita continuamente dalle previsioni dell’artista, sollecitandolo a nuove e impreviste reazioni. È questa dialettica interna alla genesi dell’opera che rende conto dell’inevitabile (ancorché nascosta) umiltà dell’artista. Per nostra fortuna, in questo continuo movimento tra volontà e accettazione, espressione e silenzio, soggettività e storia, succedono molte cose interessanti. E, come dice Francis Alÿs, “A volte il fare qualcosa di poetico può diventare politico e a volte fare qualcosa di politico può diventare poetico”.

 

(Edito in "Warburghiana_a_stampa", 2, novembre 2010; Luca Bertolo, I baffi del bambino, Macerata 2018)

 

 

[1] Melanie Gilligan, The Beggar’s Pantomime: performance and its appropriations, “Artforum”, 45,10, summer 2007.

[2] George Orwell diceva: “Mantieni una parte di te inviolata”.

[3] Jacques Rancière, The Emancipated Spectator, “Artforum, 45, 7, march 2007.

[4] Foss’anche magico-rituale: perché solo i popoli con una vera cultura sciamanica vivono i propri rituali per il loro valore magico

[5] Jacques Rancière, The Emancipated Spectator, cit.