Cosa facciamo quando facciamo arte

Giugno 2022

 

Cosa si fa, dunque, quando si fa arte?

Si fa ciò che l’arte è. E, dunque: che cosa è l’arte, quando la si fa? Oppure: come si distingue il fare arte da altre pratiche? Cambia, questa riflessione, nel tempo?

 

Tutte le pratiche umane hanno presupposti simili – assumendo che gli umani, in qualsiasi fare, siano simili. E’ forse il peso relativo con cui tali presupposti entrano nella pratiche che distingue l’arte da altro? E’ tale distribuzione dipendente dalla direzione e verso della pratica, e/o viceversa? Una pratica senza direzione e verso è indistinguibile. Ed allora: come si forma quella distribuzione di pesi? Non vi e’ altro che l’incontro tra chi fa, l’essenza o costituzione di chi fa, ed il contesto in cui si fa. E questa costituzione e contesto sono il risultato di un nugolo di credenze, metodologie, strumenti, elementi, eventi, ecc., ognuno con la propria essenza o costituzione.

 

Focalizzandoci sulla pratica contemporanea, riconosciamo similitudini di direzione e verso in chi pratica l’arte, in chi fa arte? La varietà è grande – come in tutte le pratiche umane. Vi è un bilancio a riguardo di come quei presupposti, presenti in ogni pratica, si combinano dando una direzione e verso preponderante alla contemporanea pratica dell’arte, oppure no? Se la risposta è no, come penso, allora non si può dire cosa sia l’arte. Si può pero’ dire cosa vorremmo che l’arte fosse. La domanda, allora, diventa: cosa vorremmo fare, quando si fa arte?

 

Perché dico che non vi sia una direzione e verso preponderante nell’arte contemporanea? Proveniamo da secoli in cui la società umana ed i suoi individui sono stati enormemente influenzati dallo sviluppo sempre più massivo e penetrante delle macchine, nelle loro varie forme. Sappiamo che la materialità – ma anche l’immaterialità – dell’arte è ora inglobata indistinguibilmente nelle relazioni politiche ed economiche della società contemporanea. Abitiamo una società in cui il misterioso, l'assurdo, l'orrido dei nostri sogni, sdoganati dopo almeno un secolo di "ermeneutica del sospetto", fanno parte della quotidianità (le teorie cospiratorie). Abitiamo una società in cui ogni risorsa è, allo stesso tempo, merce e portatrice di inimmaginabili profitti a chi possiede, per legge, tali risorse. Abitiamo in una società in cui sia gli obiettivi delle avanguardie storiche che del capitalismo si sono realizzati – per una sinergia certo non intenzionale ma attuata (surrealismo e relazioni pubbliche; propaganda e pop-art) e coadiuvata da secoli di relegazione dell'arte all'estetico separato dal politico ("l'art pour l'art", la "musica assoluta", ecc.) – un percorso che riceve quasi una “certificazione” con l’avvento dell’accoppiata, anch’essa sinergica, post-moderno/neo-liberalismo. L'arte diventa indistinguibile dalla non-arte, il vero dal non-vero, la merce dalla non-merce. Chiedersi “cosa facciamo quando facciamo arte”, riformulata in “cosa vorremmo fare, facendo arte”, diventa allora uno dei pochi sintomi di sanità nel mondo di oggi.

 

Brevissimo excursus ontologico e metafisico sul mondo in cui ci ritroviamo immersi. Ciò  che differenzia il caos dal caos non può essere altro che la differenza, il segno che viene percepito “localmente” da altre differenze (relazionandosi, aggregandosi), formando così un universo segnico e dunque linguistico. Che sia l’universo come descritto dalla fisica (enorme potenziamento delle nostre percezioni sensoriali), oppure il dialogo tra alberi in una foresta, e senza dubbio tra qualsiasi organismo che definiamo vivente (ma perché non anche per il non-vivente?), la realtà è una rete di relazioni e rapporti che si può formare con il separarsi/differenziarsi ed il valore di ricongiungimento che ciò  inaugura, ossia la traduzione che, fino all’avvenire di tale ricongiungimento in una metamorfosi continua, stabilisce il significato come complementare all’incomprensione – sempre e solo “localmente”. Ma che cos’è questa “località” che ho posto, per ora, tra virgolette?

 

Lo spazio a cui tale “località” si riferisce è lo spazio all’interno del quale esistono tautologie ed al confine del quale i significati si formano e si riformano. E’ uno spazio linguistico in cui la lingua non è certo la lingua naturale umana ma qualsiasi sistema segnico – alla Peirce, per intenderci. Le “località” sono innumerevoli come lo sono le differenze – di cui noi individui siamo solo un’istanza. Possiamo anche chiamarla paradigma, o contesto.

 

Nelle pratiche umane vi è sia lo stare all’interno di tale “località”, sia l’esplorare al di fuori dei confini di quella. Vi è verità e progresso all’interno (le tautologie possono essere espresse in modi diversi ma sempre commensurabili), vi è rottura di verità e progresso quando ci si avventura all’esterno. Agiamo in entrambe le modalità, costantemente, in qualsiasi pratica. Ma se il seme che può diventare progresso ha grandi probabilità di crescere perché si è formato all’interno di quella stessa “località” da cui proviene, il seme che può diventare un nuovo linguaggio ha grandi probabilità di perdersi – perché all’esterno la costituzione, e dunque la ricezione, è diversa e sconosciuta.

 

Tornando alla nostra domanda ed al presente, non vedo più grande valore nel fare se non quello che incrina le tautologiche verità ed il distopico progresso di un mondo focalizzato sulla psicopatologia commerciale-finanziaria – metabolizzazione monotematica della transizione dai valori pre-moderni delle élite cristiane e nobiliari a quelli secolari, metabolizzazione pressoché completata dagli ultimi 50 anni di sinergia post-moderna/neo-liberale. E’ un lavoro di tessitura, direi tessitura affettiva – senza voler offendere nessuno, potremmo pensare alla pratica artistica come una forma di lavoro affettivo senza mercato – perché senza contesto. Un lavoro affettivo di germogliazione e cura di valori, direzioni e versi, significati. Un’arte che non si sottrae alla responsabilità di partecipare alla società e alla politica, nel tentativo di ridisegnare la località in cui viviamo. Che poi si impieghino tecniche artistiche, scientifiche o gestionali come humus in cui coltivare il seme di quest’arte non importa – importa invece l’immettere rinnovate incomprensioni per cui, e su cui, il significato, il valore, come traduzione e cura tra quelle incomprensioni, fa da ponte.

 

L’improduttività materiale (o la produttività immateriale); la sospensione della sequenza causa-effetto; il sogno ad occhi aperti; la meraviglia ed il rispetto; la separazione tra pratica e reddito; alcuni valori in un nuovo linguaggio politico-sociale che l’arte può alimentare e proteggere. Non sono valori marxisti, o liberali, o morali. Sono valori politici, estetici e poetici che tendono al rendere ciascun essere umano (e non) autonomo e dunque libero, nel contesto di relazioni in cui abita, di esprimere la propria essenza, o costituzione fondamentale. Quasi paradossalmente, se letta con le lenti moderne, è ora l’arte a dover apportare ragione al mondo.