L'attesa

Aprile 2022

 

L’altro suggerimento che volevo fare ad amici pittori era di dipingere dalla finestra. Un tema peraltro storico, questo della finestra.

Ne ho parlato con qualcuno ed in particolare con Yari Miele.

Poi siamo stati a Cantù dove abita Yari in una fabbrica di finestre e da lì a Como per rivedere i grandi astrattisti della scuola di Como e per forza di cose la straordinaria architettura della Casa del Fascio di Terragni. Ci siamo fermati a bere un caffè al Bolla dove c’è una parete con delle piastrelle di Fausto Melotti.

L’astratto di Manlio Rho mi ha impressionato nonostante io venga da tutt'altra scuola, più gestuale depisisiana nella mia formazione italiana e gestuale per quella americana. 

Rho mi ha fatto pensare ad una risoluzione diversa della prospettiva, già diversa grazie alla fotografia in quanto la geometria ortogonale era già stata sostituita dagli impressionisti dalla luce e quindi dall'effetto di profondità di campo.

Nelle opere di Rho una trasparenza a strati per guardare attraverso, quasi un precursore del 3D e qui ci si domandava oggi quale rapporto c’è tra la composizione, la forma e il guardare in condizioni contemporanee…

L’arte è un problema di affermazione del visivo ma non solo, è questo che la rende complessa. E i rapporti tra i significati; nella sintassi mai rigida sempre in evoluzione nella sperimentazione che vede la forma delle cose in rapporto al pensiero che nasce dalla cultura di un gruppo. Un rapporto che può essere dialettico conflittuale interrotto mai decisamente definitivo. Un rapporto tra la percezione e la materia.

Ho l’impressione che dopo questo caos, il pandemonio dell’epidemia anche la cultura e l'arte dovrebbero prendere un altro corso. Perché è nella natura dell'arte adattarsi alla contingenza e interpretare anche ciò che non appare.

Siamo stati a Cantù prima della pandemia. Ci interessava riprendere il discorso della finestra sia da un punto di vista della pittura astratta che da quello architettonico. 

Mi ricordo della gentilezza di Yari a portare in giro per il nord della Lombardia un’artista non più giovane come me, di una generazione diversa dalla sua con idee sull’arte forse antiche, classiche, ma con la comune proposizione di far rinascere questa distanza di chi guarda attraverso il tempo. Quello del quotidiano e quello della storia. 

Abbiamo studiato le cornici delle finestre di acciaio nella fabbrica di Cantù. Gli scheletri della soglia da cui fare un passo verso il vuoto, l’esterno. Così come gli strati dell’astratto compositivo della scuola di Como e le grandi finestre dell'architettura di Terragni: un corpo unico, solido di vuoti e di strutture portanti. Di bianchi e di neri.

Poi sono ripartita ma per tornare sempre allo stesso punto.

Perché anche questo è un significato della finestra: la stabilità della sua cornice e l’apertura al desiderio.

Oltre l’apertura prospettica del cenacolo vinciano, come in Vermeer la luce dalla finestra entra a illuminare la scena nell’interno. Ricordi che in Van Van Eyck (1434) la finestra moltiplica lo spazio e il set del dei protagonisti come in Velasquez. Solo più tardi la finestra diventa una vera e propria metafora, ovvero la ‘soglia’ tra il dentro e il fuori, tra il micromondo e il macromondo, tra il calore e la sicurezza degli affetti familiari e l’infinito spazio sconosciuto, aperto alle avventure e ai desideri, ma anche al rischio e al pericolo. 

Un’apertura è un limite. Un filtro che si apre e si chiude: unisce e separa. Dove apparire o nascondersi. La finestra significa anche attesa. In fotografia è l’inquadratura. Un modo di guardare.

Ho ripreso un piccolo disegno a pastelli di Nelson Mandela quando era incarcerato. Sbarre che separano il buio della cella dalla luce del paesaggio di fronte. Perché se osserviamo l’esterno spesso lo facciamo frontalmente dalla posizione del "wanderer", il personaggio visto di spalle del dipinto di Friedrich. Ossia lo spazio del sogno, dell’inconnue, di ciò che ci è misterioso e che ci piacerebbe scoprire.

Tutti dicono che questa della pandemia sia una situazione temporanea e che poi tutto tornerà alla normalità. Non ci credo. Se siamo fortunati, la pandemia diventerà endemica. Una popolazione mondiale soggetta sempre alle malattie, perché debole. Penso inoltre che la globalizzazione sia finita, così come (e lo dico da tempo) sia finita la società dello spettacolo. Ossia tutte le istituzioni del dopoguerra sono in via di estinzione.

Sarà molto importante capire la possibilità per noi artisti visivi non solo di esibire il nostro lavoro nel dopo COVID 19 ma anche di fare arte che abbia due significati: di invenzione e di distanza.

Cito Schopenhauer perché in questa breve frase risponde con chiarezza al nostro progetto.

"La lontananza che rimpicciolisce gli oggetti per l’occhio, li ingrandisce per il pensiero". 

Vorrei qui fare un accenno ad una nostra idea che caratterizza l’artista nell’arredo urbano di oggi. La finestra dunque anche come vetrina. Come luogo di sfondamento dell’osservazione: guardare da vicino ciò che è lontano. Come partecipazione attiva di chi osserva: come intervento diretto della proiezione di fatti e di idee.

 

Yari Miele ha prodotto importanti installazioni basate sulla geometria della cornice da cui abbiamo pensato di realizzare tempo fa una finestra, un tema classico nella storia dell’arte. Io, Vittoria Chierici, a New York ancora studente della School of Visual Arts, partecipai, negli anni 80, all'apertura di uno spazio espositivo, una vetrina in pieno centro a Manhattan. Si chiamava "The Parallel Window". Hanno esposto anche artisti italiani, come il pittore bolognese Piero Manai, l’artista concettuale Mariella Simoni e l’artista americano notissimo in quegli anni colpiti da un’altra pandemia, l’AIDS, David Wojnarowicz. Di recente ho partecipato ad un altro esperimento espositivo, quello della vetrina alla Libreria delle Donne di Milano.

Unendo queste due esperienze, quella delle sculture installative di Yari Miele e quelle mie di curatrice ed artista in spazi espositivi alternativi è nata l’idea di una finestra- vetrina, intesa quale opera smontabile, in grado di cogliere sia lo sguardo del passante che, al proprio interno, documenti audio - visivi attuali dei cittadini. La vetrina diventa non solo una finestra, come riferimento storico di tanti stili, da quello Rinascimentale a quello Futurista, ma anche una "teca" nelle vie della città che ricorda un cambiamento del mondo inaspettato.   

 

Ho l’impressione che dopo questo caos, il pandemonio dell’epidemia adesso la guerra la cultura e l'arte dovrebbero prendere un altro corso. Perché è nella natura dell’arte adattarsi alla contingenza e interpretare anche ciò che non appare.

 

Facendo il punto:

naturale e diretto per me vuol dire istintivo, il talento.

Non fare del mondo uno spettacolo, ma guardare allo spettacolo del mondo, come diceva Pessoa, con la capacità di leggere la vita in un certo modo, da artista, in quanto persona diversa.