Prima di partire

febbraio 2020

 

Ciao Ermanno,

se penso al bordo, termine che tu hai suggerito di usare come titolo per la nostra discussione, mi viene in mente anche un suo possibile sinonimo: lembo. Entrambe le parole rimandano a qualcosa di marginale, a tratti di estremo, nel senso che stanno proprio alla fine di qualcosa, al termine di una terra conosciuta. E’ quindi un’impresa avventurosa (o esplorativa?) quella di aprire un dibattito sulle pratiche artistiche che vivono e insistono a permanere fuori dal cosiddetto mercato? Te lo chiedo, non senza una punta di ingenuità e di urgenza, anche perché nelle nostre più recenti discussioni di carne al fuoco ne abbiamo messa tanta: aspetti etici legati alla dimensione "politica" e resistente dell'arte, la centralità dell'opera e l'esposizione della stessa, una generale ricerca di senso della (e nella) condizione marginale nella quale si ritrova a vivere e ad operare gran parte del mondo dell'arte che frequentiamo. Io non sono un teorico, vivo di pratica quotidiana, le mie domande nascono da un bisogno maturato nel tempo, che come nel lavoro manuale, suggeriscono attraverso il fare una linea di pensiero. Per questo ti chiedo di cominciare tu, che invece con gli aspetti teorici hai sicuramente più pratica del sottoscritto, a srotolare la matassa. Da dove cominciamo? 

  

Caro Cesare,

in questi giorni stavo leggendo un libro di Enrique Vila-Matas, Storia abbreviata della letteratura portatile, e come spesso suggeriscono di fare le letture fresche comincerei da lì, da un passo che mi sembra contenere quello che alla fine è la ragione di tutto: “Walter Benjamin era anche anima gemella di Marcel Duchamp: ambedue vagabondi, sempre in viaggio, esiliati dal mondo dell’arte e al tempo stesso collezionisti arrabbiati di cose, o, per meglio dire, di passioni.”

Se c’è una dimensione etica nel fare artistico -e in assoluto ha da esserci per forza visto che stiamo parlando del recto e del verso di una stessa medaglia- essa sta proprio nel fare in sé, nella sua specificità, che è poi la capacità di consumare un continuo stato di esilio, uno sguardo nutrito dallo spessore di una distanza.

La qualità di ciò che si usa definire con il termine “impegno”, ovvero la capacità dell’arte di graffiare il mondo, necessaria per definizione ma tanto più necessaria in tempi di crisi come questi, passa attraverso una forma di distacco dal mondo. Viene in mente il pensiero di Agamben circa la necessità di una sfasatura, una sorta di anacronismo, come condizione per essere contemporanei, anziché semplicemente attaccati al presente.

In tale prospettiva la marginalità diventa un valore e anche la questione della “solitudine”, o estraneità, rispetto al mercato si trova a riguardare il potenziale euristico del “fallimento” in contrapposizione alla mitologia del successo.

Dunque per srotolare la matassa non ci resta che perderne il bandolo lungo il terreno friabile dei bordi, quel luogo che perimetrando apre, perché non avendo nozione certa del dove e del quando, lì le cose affiorano e scompaiono nella loro indeterminatezza.

A proposito, si dice che tra il corpo inanimato di Robert Walser e le sue impronte ci fosse almeno un metro di neve intonsa.


Collage e anamorfosi

marzo 2024

 

Dalla Treccani online  ho ricavato questa definizione della parola “anamorfosi”, “un tipo di rappresentazione pittorica realizzata secondo una deformazione prospettica che ne consente la giusta visione da un unico punto di vista (risultando invece deformata e incomprensibile se osservata da altre posizioni).”

 

Qui ci si riferisce alla deformazione dell’immagine del dipinto, che per essere compresa richiedeva una visione tramite specchi deformanti, oppure una forte inclinazione del piano della visione (come nel dipinto degli ambasciatori di Holbein conservato alla National Gallery). Si tratta chiaramente del significante, ma si può parlare anche di anamorfosi del significato? 

 

Se pensiamo alla tecnica del collage, possiamo immaginare che l’inclinazione del dipinto oppure l’uso di lenti o specchi si trasformi in posizione sul piano, in quantità o meno del ritaglio, in nuove modalità di visione sulla base della collocazione o dell’accostamento con altro ritaglio?

Ogni frammento mantiene una sua autonomia; resta il riferimento ad aree semantiche precise nonostante la nuova posizione assunta. Ma è l’insieme degli elementi che potremmo definire come “anamorfosi”; perché è l’inclinazione che si trasforma in disposizione a definire l’immagine da guardare, ed è la composizione, benché precaria, a divenire lo strumento ottico con cui recepire un nuovo ed inedito significato dell’insieme. 

 

Dall’anamorfosi credo si possa anche desumere un senso di precarietà della visione, ed è forse l’elemento che le conferisce quell’inquietudine che pittori come Holbein volevano suggerire. Il tempo della comprensione dell’immagine è vincolato dalla possibilità o meno di mantenere le singole parti secondo quella disposizione, e non un’altra. E’ possibile che, per capire meglio, lo sguardo debba piegarsi, o sia necessario torcere il collo, socchiudere gli occhi, chiederne uno per evitare la visione bioculare. In alcuni casi i ritagli mantengono la loro fisicità, proiettando strane ombre sul piano, in altri è necessario comprimere tutto sotto un vetro (come fosse una lente?) per aumentare il senso di connessione tra gli elementi. E come nell’anamorfosi l’immagine distorta è la più semplice da mantenere perché richiede meno sforzo interpretativo (ma anche fisico), così anche nel collage i singoli elementi non perdono il forte richiamo alla loro origine, conferendo al tutto un senso dì lotta e conflitto che aumenta la sua incertezza temporale e ne determina la precarietà. 

 

L’ambiguità è il terreno comune, il luogo naturale di anamorfosi e collage; mantenendo i piedi, per così dire, in aree semantiche distinte, essi riescono ad essere una cosa e l’altra senza contraddizione, realizzandosi nell’ indeterminatezza, nell’irriducibile volontà di non essere mai del tutto una sola cosa.


Altro appunto sul disegno

novembre 2022

 

Il disegno nella sua accezione più immediata, quella di tracciare un segno su una superficie sulla spinta di una sollecitazione visiva, si potrebbe distinguere in due categorie: una diretta, ovvero un disegno dal vero, eseguito in quel determinato momento davanti a un soggetto; e una indiretta, cioè il disegno frutto di un ragionamento figurato, di un ricordo o di altro ancora non collegato all’esperienza di quell’istante.

 

Prendiamo in esame il disegno dal vero, e spogliamolo da ogni sua preoccupazione estetica. Soffermiamoci sulla postura del disegnante, su come si pone, con il proprio corpo, nei confronti del soggetto che vuole ritrarre, e su ciò che deriva dall’assunzione di questa determinata postura.

 

Il primo effetto è ritrovarsi a ragionare, a partire da quella particolare posizione, sul rapporto che si instaura con la realtà circostante. Quello che prima di cominciare a disegnare si dava per scontato, vale a dire la nostra collocazione nel mondo, ora si percepisce come condizione da costruire. È inevitabile infatti porsi col proprio corpo in un rapporto diretto con il soggetto da rappresentare: in questa prospettiva, il corpo è inteso come struttura portante degli occhi. Per questo si tende a raddrizzare la schiena, a disporre le spalle e il bacino nella direzione che ci viene indicata dagli occhi, a mettere a fuoco e a decidere una distanza funzionale all’osservazione. Questo disporsi, raddrizzarsi, girarsi e infine puntare costruisce dei rapporti di geometria tra l’asse degli occhi (primi e veri protagonisti dell’esercizio) e il resto del corpo; in primis le spalle, per poi scendere fino al bacino, e arrivare infine alla punta dei piedi in relazione alla posizione delle gambe. Questi “rapporti” posturali predispongono l’apparato visivo a una prima formalizzazione dell’esperienza, ovvero ad una strutturazione dello spazio e degli oggetti in termini di semplificazione geometrica, rappresentata dalla trasformazione in due dimensioni di una realtà tridimensionale. Tale operazione non è frutto di un cosciente calcolo razionale, o dell’agire – per noi inconsapevole – di una forma pura a priori del nostro apparato visivo e cognitivo, ma procede dalla prossemica del corpo, dalla concreta, fisica e contingente disposizione di un soggetto disegnante che è tale in quanto è al contempo, e in primo luogo, quel corpo, e quindi quelle mani, quegli occhi, quelle spalle, quel bacino. 

 


Appunti sul disegno, 3

dicembre 2021

Cose che accomunano il disegnare (per il disegnare) con il camminare: due attività apparentemente marginali; la prima quando non progetta, non è funzionale alla costruzione di qualcosa, la seconda perché si realizza pericolosamente ai bordi delle nostre strade eccessivamente trafficate[1].

 

1) entrambe richiedono un rallentamento e un tempo più lungo di quello che siamo soliti usare per una qualsiasi delle attività che svolgiamo: andare in macchina, guardare un film, consumare un pranzo; 

2) Il camminare e il disegnare possiedono entrambe una linearità: i punti infiniti che costituiscono la linea in geometria potrebbero equivalere ai passi, che a loro volta sono il risultato di una serie di infinitesimali movimenti in avanti; 

3) Sia nel caso dei passi che della linea disegnata più che il loro essere un “percorso”, assume valore quello che si trova fuori di essa: lo spazio esterno o interno alla forma o il paesaggio che si dispiega intorno alla camminata; 

4) Sia nel camminare che nel disegnare si valorizza la sedimentazione dell'esperienza: ridisegnando, cancellando, rifacendo, ritornando sui propri passi, percorrendo sempre lo stesso tratto (anche la parola “tratto” assume in questo caso una doppia valenza).

 

[1] Camminare come attività marginale (visivamente il marciapiedi): Famosa citazione di P. Valery su Degas: non si è veramente visto qualcosa se non si è provato a disegnarla, si trasforma in: non si conosce mai veramente una strada se non la si è percorsa camminando (più volte). 

 

Stanley Brouwn, This way brouwn, 1961


Appunti sul disegno, 1

settembre 2021

Immaginiamo di considerare il disegno fuori da ogni accezione artistica, che è quella che siamo soliti attribuirgli. Neghiamogli anche una funzione progettuale, tecnica, di pre-visione di qualcosa da realizzare. Pensiamo al semplice atto del guardare e del tracciare nel tentativo, mediante il contorno, di restituire pienezza (o forza, o senso) alle singole forme che compongono l'insieme di un soggetto. Questo tracciare mentre si guarda diventerebbe un’attività che trascende i propri risultati; si spiegherebbe da sé mentre si compie, nel farsi, su un piano difficilmente misurabile, alla luce di motivazioni impossibili da quantificare. Sarebbero la traccia parziale (ma come potrebbe essere altrimenti?) di un'attività creativa e conoscitiva (Fiedler) che si fonda sulla visione, la registrazione di un’esperienza visiva che è stata tale nel suo protrarsi in un lasso di tempo dai confini sfumati; in definitiva, una riflessione sui modi con cui costruiamo il rapporto tra noi e il mondo.

 

In questo suo essere traccia-registrazione – traccia perché registra ciò che diviene nel farsi, registrazione perché traccia il profilo e quindi il senso di questa memoria gestuale – risiede il suo interesse e, a mio avviso, anche la sua importanza.

 


Appunti sul disegno, 2

luglio 2021

 

Il disegno si sviluppa nei rapporti di tensione tra forme che confinano. La traccia della matita accarezza i bordi, disegna linee di demarcazione. Di fatto il disegno dal vero è la manifestazione grafica della continua esplorazione che i nostri occhi compiono del mondo in quanto insieme di pieni e di vuoti. L’occhio per comprendere le forme delle cose si sofferma sui loro bordi, li naviga, li esplora, li assume come punto di riferimento; la matita si trasforma in un sismografo che registra ogni variazione dei limiti, anche la più piccola e impercettibile.

A proposito della giustezza o meno di tali forme è interessante notare come spesso il disegno, in un primo momento, possa sembrare sbagliato; Valery spiegava come fossero i rapporti ad essere sbagliati, e non le forme, come se nel tracciare una linea di contorno non riuscissimo a garantire una concordanza nelle proporzioni tra le parti. Ma anche in questo caso potremmo affermare che nessuna visione ha nelle proporzioni il suo fondamento; la giustezza dei rapporti è un tema stilistico e culturale, un problema di restituzione e di comprensione delle distanze reali in termini di centimetri o di metri o di chilometri su un piano bidimensionale, ma perde di importanza se consideriamo il meccanismo fisiologico della visione, che ha caratteristiche sferiche, e che viene costantemente orientato e attraversato da presupposti culturali, pattern psicologici e stati emotivi.

 

Giorgio Morandi 1955