Prima di partire

febbraio 2021

 

Ciao Ermanno,

se penso al bordo, termine che tu hai suggerito di usare come titolo per la nostra discussione, mi viene in mente anche un suo possibile sinonimo: lembo. Entrambe le parole rimandano a qualcosa di marginale, a tratti di estremo, nel senso che stanno proprio alla fine di qualcosa, al termine di una terra conosciuta. E’ quindi un’impresa avventurosa (o esplorativa?) quella di aprire un dibattito sulle pratiche artistiche che vivono e insistono a permanere fuori dal cosiddetto mercato? Te lo chiedo, non senza una punta di ingenuità e di urgenza, anche perché nelle nostre più recenti discussioni di carne al fuoco ne abbiamo messa tanta: aspetti etici legati alla dimensione "politica" e resistente dell'arte, la centralità dell'opera e l'esposizione della stessa, una generale ricerca di senso della (e nella) condizione marginale nella quale si ritrova a vivere e ad operare gran parte del mondo dell'arte che frequentiamo. Io non sono un teorico, vivo di pratica quotidiana, le mie domande nascono da un bisogno maturato nel tempo, che come nel lavoro manuale, suggeriscono attraverso il fare una linea di pensiero. Per questo ti chiedo di cominciare tu, che invece con gli aspetti teorici hai sicuramente più pratica del sottoscritto, a srotolare la matassa. Da dove cominciamo? 

  

Caro Cesare,

in questi giorni stavo leggendo un libro di Enrique Vila-Matas, Storia abbreviata della letteratura portatile, e come spesso suggeriscono di fare le letture fresche comincerei da lì, da un passo che mi sembra contenere quello che alla fine è la ragione di tutto: “Walter Benjamin era anche anima gemella di Marcel Duchamp: ambedue vagabondi, sempre in viaggio, esiliati dal mondo dell’arte e al tempo stesso collezionisti arrabbiati di cose, o, per meglio dire, di passioni.”

Se c’è una dimensione etica nel fare artistico -e in assoluto ha da esserci per forza visto che stiamo parlando del recto e del verso di una stessa medaglia- essa sta proprio nel fare in sé, nella sua specificità, che è poi la capacità di consumare un continuo stato di esilio, uno sguardo nutrito dallo spessore di una distanza.

La qualità di ciò che si usa definire con il termine “impegno”, ovvero la capacità dell’arte di graffiare il mondo, necessaria per definizione ma tanto più necessaria in tempi di crisi come questi, passa attraverso una forma di distacco dal mondo. Viene in mente il pensiero di Agamben circa la necessità di una sfasatura, una sorta di anacronismo, come condizione per essere contemporanei, anziché semplicemente attaccati al presente.

In tale prospettiva la marginalità diventa un valore e anche la questione della “solitudine”, o estraneità, rispetto al mercato si trova a riguardare il potenziale euristico del “fallimento” in contrapposizione alla mitologia del successo.

Dunque per srotolare la matassa non ci resta che perderne il bandolo lungo il terreno friabile dei bordi, quel luogo che perimetrando apre, perché non avendo nozione certa del dove e del quando, lì le cose affiorano e scompaiono nella loro indeterminatezza.

A proposito, si dice che tra il corpo inanimato di Robert Walser e le sue impronte ci fosse almeno un metro di neve intonsa.


I pittori e l'algoritmo

Come una mostra sulla pittura diventa un mostra contro la pittura. Note su Pittura italiana oggi, Triennale, Milano.

Novembre 2023

 

Ho molti amici pittori di cui stimo senza riserve il lavoro e in linea di principio non ho proprio nulla contro l’atto del depositare del pigmento su una superficie, per cui nessun pregiudizio da parte mia, eppure considero la grande mostra sulla pittura italiana alla Triennale di Milano una mostra brutta, inutile, profondamente reazionaria, antitetica ai propositi dichiarati, quelli di valorizzare la ricerca pittorica italiana.

Il problema non sono le singole opere, alcune di grande qualità, il problema è l’insieme. Non bastano le opere per fare una mostra, la mostra è un organismo nutrito dalla relazione tra le opere e tra le opere e lo spazio. Almeno da quando il pensiero scientifico ci ha indicato la consapevolezza del fatto che non esistono più le cose ma la relazione tra le cose la nozione stessa di opera d’arte è profondamente mutata e non può più considerarsi un oggetto chiuso in sé stesso. Peraltro un centinaio d’anni di storia dell’arte si sono svolti proprio intorno a questi temi. “sont les regardeurs qui font les tableaux” notava già Marcel Duchamp.

Nella mostra milanese Il problema è l’insieme, il problema sono l’dea, l’approccio critico e il disegno curatoriale perché si tratta di una mostra senza idea, senza approccio critico e senza disegno curatoriale, inerzialmente ancorata a una visione passatista dell’opera.

 

La premessa secondo cui la pittura in Italia è vittima di ostracismo non è un’idea ma un luogo comune. Basta fare un giro tra le gallerie o le fiere: almeno in termini quantitativi la pittura è viva e vegeta e con un ruolo di protagonismo, forse anche perché il mercato comunque ne ha bisogno. L’intenzione del curatore di dare fiato a Cenerentola di conseguenza ha i piedi d’argilla e il suo cammino finisce prima ancora di cominciare.

Ma ammesso e non concesso che Cenerentola esista per davvero qual è la sua fisionomia secondo il curatore? Non c’è risposta salvo l’adesione generica ai canoni più scontati. Questo è il primo nodo della questione.

 

Diventa sempre più difficile oggi considerare la pittura e i pittori come una categoria a parte, una specificazione ben delimitata del fare artistico, una sorta di riserva indiana. Inutile ricordare che è dagli inizi del secolo scorso che lo specifico pittorico è sottoposto a profondi movimenti tellurici i quali ne hanno prodotto una progressiva dilatazione verso lo spazio, verso gli oggetti, verso gli altri media e gli altri linguaggi. Identificare oggi la nozione di pittura con il “quadro su tela” è quantomeno anacronistico, e non nel senso nobile del termine.

Particolarmente oggi, e direi più o meno a partire da una trentina di anni fa, facendo tesoro della ormai più che matura lezione novecentesca vi è tra gli artisti un atteggiamento disincantato per cui il dipingere è una pratica da non considerarsi necessariamente esclusiva. Molti artisti passano con estrema levità da un quadro a una foto a una performance a un’installazione, ecc. assecondando con libertà un attraversamento continuo dei linguaggi. Una sorta di infedeltà euristica che tra l’altro taglia netto con la nozione sedimentata di stile. Anche quando per inclinazione personale l’attenzione si concentra prevalentemente su un mezzo è ormai assodata la consapevolezza che non si tratta de il mezzo bensì di un mezzo tra i mezzi.

Una mostra sulla pittura dunque non può prescindere da tale disincanto, soprattutto se vuol essere in un presente assoluto. Se c’è vitalità della pittura (e sicuramente c’è) essa sta nella frizione con gli altri linguaggi, lungo la linea di una frontiera in cui si confrontano mescolandosi, dividendosi, sovrapponendosi, cancellandosi vicendevolmente le modalità dell’arte.

Pensare una mostra sulla pittura oggi significa necessariamente camminare su un terreno friabile poiché non si può considerare la pittura astraendola dalle sue relazioni, più o meno pericolose che siano. Se non si ha il coraggio di affrontare la friabilità del terreno si torna inevitabilmente indietro.

 

La seconda questione riguarda l’approccio critico e il disegno curatoriale. Il curatore in catalogo parla di una mostra costruita nel tempo attraverso una frequentazione della pittura e dei pittori, talvolta dettata dal caso e/o dalla curiosità. Una visione ovviamente parziale che avrebbe fatto preferire un titolo meno ambizioso del tipo “La mia pittura italiana oggi” e il coraggio di una conseguente operazione di sintesi. È vero che qualsiasi azione curatoriale è una visione parziale, ma in assenza di un’ipotesi critica -e cioè per esempio il tratteggiare argomentandole delle direzioni della ricerca, dei temi, delle attitudini, ecc.-  la parzialità è ancora più parziale e se la pura soggettività non è dichiarata tutto diventa arbitrario, gratuito, inconsistente.

Il tempo lungo e l’incedere lento e senza programma della gestazione (secondo quanto dichiara il curatore) potrebbero far pensare alla passeggiata walseriana; ma nella passeggiata walseriana ci si stupisce degli incontri mentre in questa mostra lo stupore è Il grande assente.

A decretarne la morte è la vocazione elencativa, propria di una dimensione quantitativa e non qualitativa: tanti autori, un autore dopo l’altro, ad ogni autore un pannello e una pagina in catalogo, salvo qualche eccezione. Un tutto noiosissimo e scontatissimo come un vecchio elenco telefonico. L’allestimento del pur bravissimo Italo Rota rinuncia alla sfida con lo spazio difficile della Triennale e probabilmente non poteva essere diversamente in presenza di un disegno curatoriale anonimo, appunto elencativo, tradito anche dall’abbondanza numerica degli artisti invitati, ben 120!

La mediocrità del progetto trova poi piena corrispondenza nelle schede che accompagnano le singole opere e contenute in catalogo, compilate con la scrittura banale di uno scolaretto svogliato. L’Umberto Eco di “Come presentare un catalogo d’arte” de Il secondo diario minimo docet.

Il curatore parla di mappatura, però la mappa implica delle scelte, un disegno, una visione. Una mappa è una forma ed è cosa ben distinta dall’elenco o dalla lista; la mostra milanese è una lista degli incontri del curatore senza aspirare alla dignità di forma. A dominare è una logica additiva piuttosto che selettiva, quella stessa logica soggiacente allo scroll di Instagram.

Dina Kelberman qualche anno fa con I’m Google ha costruito un lavoro capace di restituire una lettura puntuale dei funzionamenti dell’algoritmo; se io inserissi le parole chiave “pittura”, “quadro”, in un motore di ricerca otterrei una lista più o meno simile a questa mostra.

La questione è che l’algoritmo è l’esatto opposto della pittura. Eugenia Vanni in un bell’articolo comparso su Artribune mette in guardia dall’equivoco secondo il quale si confonde la pittura con l’immagine della pittura. Sostiene la Vanni che attualmente una condizione di sovrapproduzione pittorica troverebbe essenzialmente ragione nel suo sharing sotto forma di immagine; in realtà la dimensione della pittura si qualifica invece per una durata la quale è antitetica allo sguardo fugace dello scroll.

La pittura quando diventa immagine della pittura è pittura decorporizzata. “Il processore conta solo”, ci insegna Byung-Chul Han, “l’obbligo di trasparenza cancella l’odore delle cose, l’odore del tempo, la trasparenza non odora”.

 

In questa mostra il curatore “conta solo”, come il processore, e la mostra non odora se non di stantio, in modo direttamente proporzionale alla sua “instagrammabilità”. L’esito è una mostra contro la pittura perché la trasforma in immagine e contribuisce al soffocamento della sua dimensione propria -che è poi la dimensione dell’arte- quella dell’opacità e del silenzio annullate nel rumore piatto e continuo: il buzz dell’infosfera.

Un buzz in cui galleggiano i luoghi comuni più scontati relativamente all’arte e alla sua esposizione. I tratti di un’operazione reazionaria appunto, nei fatti armonica con il clima di “ritorno all’ordine” proprio dei malatempora in cui siamo proiettati.

A poco vale la premura di avvertirci che i pannelli usati per l’allestimento sono materiale di riuso per una mostra “ecosostenibile” nello spirito di un ormai insopportabile, e un pò fighetto, “politically correct”, perché dato il contesto non si va al di là di una vulgata falsamente, e purtroppo solo falsamente, progressista, dispiegata a celare nel fumo una sostanziale mancanza di idee.


Sette movimenti per una storia ad arte

2016, Prolegomeni per Tutorial Sirtaki, a cura di Elena Bellantoni e Maria Ferratto, MAXXI, Roma, 2017

Settembre 2022

 

ATTO DI NASCITA

È facile fare un lavoro artistico, basta riappropriarsi del tempo. Tutto comincia così.

 “ Non bisogna far passare il tempo, ma anzi invitarlo a fermarsi presso di noi.” Sono le parole di Walter Benjamin nei Passages di Parigi, la principale indicazione per cominciare.

 

PREPARARE LA SEDIA

Il protagonista di Caos Calmo smette di lavorare e abbandona le sue agitate occupazioni quotidiane per sedere su una panchina, per giorni, senza tempo, così impara a guardare con altri occhi e vede.

Disporsi ad aspettare è iniziare una storia d’amore ed è l’essenza di ogni lavoro artistico. Perché l’amore è puro sperpero, come il lavoro artistico.

 “ Sono innamorato? – Sì, poiché sto aspettando”, il Roland Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso suggerisce la domanda che deve guidare il lavoro.

 

SPOSTARE LA SEDIA

Per amare bisogna avere “orrore del domicilio”, in modo da poter disporre continuamente la sedia altrove.

Mi piace quello che scrive Francis Scott Fitzerald: “Prendete una sedia e sistematevi sull’orlo del precipizio: solo allora potrà avere inizio la storia che voglio raccontarvi”

 

RITARDARE

Nella vertigine del precipizio può avere luogo il viandare come alternativa al viaggio e questo presuppone il ritardo. Il ritardo è la dilatazione del viaggio ed è il luogo dove la meta si annebbia lasciando spazio alla scoperta. La scoperta si alimenta delle pause e ci consente di vedere con gli occhi della meraviglia.

 

PERDERSI

Nella meraviglia ci si perde e perdersi è il fine del viandante perché è una modalità per esperire il limite oltrepassandolo di continuo. Camminando sul filo precario del limite si può sperimentare l’equilibrio che permette di affrancarsi dalla noia consolatoria della sicurezza tranquillizzante. Ogni opera è un azzardo dell’equilibrio.

 

RESPIRARE

Respirare è il fine ultimo. Un’attività marginale, quasi data per scontata, accessoria; considerata a sé stante assolutamente improduttiva. Eppure il cuore della vita. Tutto conduce lì: è la fine e l’inizio del viaggio. Secondo Marcel Duchamp il problema è opporre il respiro al lavoro.

Come conclusione vale il racconto di Gabriel Garcia Marquez: “Col suo terribile senso pratico, lei non poteva capire quale fosse il guadagno del colonnello, che cambiava i pesciolini con monete d’oro, e poi trasformava le monete d’oro in pesciolini, e così via”.

 

EPILOGO

Tutto qui. “Niente da vedere, niente da nascondere” dicevano Alighiero & Boetti.

 


L’opera d’arte tra frequentazione e pornografia (di musei, trasparenze, opacità e passi lenti)

Novembre 2021

 

La vita dell’opera d’arte, in assoluto, si identifica con quella che potremmo definire la sua frequentazione. Frequentazione anzitutto da parte di chi la realizza, ma non meno da parte di chi ne fruisce.

Come dice Giulio Paolini, l’opera, una volta brevemente intrattenuta nello studio dal suo autore, attende di essere accompagnata “fuori”, per compiersi attraverso gli occhi di chi la guarda[1].

Peraltro già Duchamp notava che “sont les regardeurs qui font les tableaux”)[2], tratteggiando così una visione attiva del fruitore in quanto autore del tutto simile a quella che Umberto Eco definirà, molto più tardi, e nel contesto di una pragmatica del testo, "atto di cooperazione interpretativa". E cioè: l’iniziativa dell’interprete è determinante nella generazione del senso poiché è condizione della vita dell’opera in quanto processo di “semiosi illimitata”[3].

La “forma come formatività”, ovvero come operare, di derivazione pareysoniana[4], riguarda così non il solo autore nel rapporto con la sua materia bensì la coppia autore-interprete con la materia assunta a ruolo di catalizzatore. Si tratta di una sorta di ménage à trois i cui termini sono distinguibili ma non distinti anche perché in un’epoca in cui il pensiero scientifico ci ha insegnato che non esistono più le cose ma “ogni cosa è solo ciò che si rispecchia in altre”[5] non possiamo considerare anche l’oggetto d’arte se non in una prospettiva relazionale.

Entro tale ménage si compie il sottile equilibrio tra i diritti dell’opera in quanto testo e quelli di chi la “scrive” sia perché autore che perché interprete. Sottile equilibrio che richiede una “cura” affinché i diritti del testo non siano travisati da forme di scrittura apocrifa che lo condannino all’insignificanza.

La nozione di “cura” disegna il perimetro dei limiti dell’interpretazione e ne ispira la vocazione ermeneutica ed esegetica a un tempo[6]. Leggere un testo, un’opera, è dunque scriverlo/a in condizioni di ascolto.

In linea di principio la casa del collezionista, al pari della casa dell’artista, è la dimora ottimale per l’opera perché la sua vita si intreccia con la vita dell’interprete il quale per interpretarla la “frequenta” nel senso stretto del termine. Da questo punto di vista la casa del collezionista / artista equivale al Museo, inteso, sempre con Paolini, come luogo di clausura: un “dentro” che costituisce il “fuori” naturale per l’opera[7]. La clausura è lo spazio della cura perché garantisce il tempo della “frequentazione”. Idealmente nel Museo cammino nell’intervallo dei miei passi, mi arresto e vedo, e rivedo, e rivedendo guardo, con quella concessione all’indugiare che sola mi consente di accedere al senso.

È lo stare appartati ciò che offre all’opera la distanza spazio-temporale dalle “cose del mondo” necessaria al suo compimento, fuori dalla dimensione della cronaca e, proprio per questo, a garanzia di una presa sul presente.

Ma come nota lo stesso Paolini l’accoglienza che oggi il museo è tenuto a offrire è quasi “un ritrovo, una pausa per turisti e famiglie”[8]. Il cammino lascia spazio al passaggio e il guardare al puro vedere, quel vedere in cui si estingue anche il sorriso della Gioconda[9]. Nulla di “democratico” in tutto ciò; nulla che corrisponda ad una “democratizzazione della cultura”, piuttosto solo un’estensione dell’entertainment.

Nel turismo culturale al passeggiare si sostituisce il passare ma laddove l’uno presuppone il tempo rallentato della scoperta e dunque della conoscenza, l’altro comporta il tempo accelerato della pura informazione. Tanto l’uno è selettivo e narrativo, quanto l’altro è esclusivamente additivo.

I processi che hanno “aperto” i musei a logiche marketing oriented interessate sostanzialmente al riscontro quantitativo della fruizione sono solo l’anticipazione di un “fuori” per l’opera che oggi trova la sua piena espressione nelle forme di esposizione virtuale che la pandemia ha fatto emergere. C’è una corrispondenza tra il “passare” come condizione fruitiva del turismo museale e lo “scorrere” quale gesto proprio della fruizione in Instagram: in entrambi i casi la fruizione non è interpretativa ma “pornografica”. Byung Chul Han[10] parla di pornografia a proposito della società della trasparenza, disegnata dai nuovi media. Lo “scorrere” è pornografico perché rende tutto a portata di mano e preclude la ricchezza della pausa opponendo l’additivo al selettivo.

Se così è si impongono allora alcune domande. Il carattere rivoluzionario dell’opera d’arte può darsi nella compromissione con il suo destino pornografico oppure deve essere cercato in forme del suo “sottrarsi”, se si vuole, del suo “pudore”?

Ovvero, c’è spazio nella dimensione additiva dello “scroll” per il “pungiglione” di Wind[11] oppure esso può essere ritrovato solo nell’opacità della durata che sta tra i passi lenti della frequentazione?  E ancora: fuori da una visione apocalittica o integrata, inevitabilmente manichea, come si pone il tema della messa in forma nell’epoca in cui il “contesto” orienta i meccanismi fruitivi ad una sorta di scrittura veloce, inesorabilmente collocata lungo il bordo insidioso dell’insignificanza?

 

[1] Giulio Paolini, Quattro passi. Nel museo senza muse, Torino, Einaudi, 2006

“Dunque, se posso concludere: l’opera è quell’insieme di opere che si offrono in esposizione. Di più: è l’esposizione, essa stessa e in quanto tale, a offrirsi come opera”

[2] In M. Sanouillet, (dir.), Marcel Duchamp. Duchamp du signe, Paris, Flammarion, 1975

[3] Vedi per es. Umberto Eco, Lector in Fabula, Milano Bompiani, !979; I limiti dell’interpretazione, Milano Bompiani, 1990

[4] Luigi Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, (1954), Firenze, Sansoni, 1974

[5] Carlo Rovelli, Helgoland, Milano, Adelphi, 2020

[6] Anche Danto, seppur in termini diversi, ritiene fondativo per l’opera l’equilibrio tra due fattori: l’interpretazione, tesa a cogliere il suo aboutness, e l’embodied meaning, il significato incarnato, necessariamente “motivato” dall’aboutness e per il quale Pareyson parlerebbe di contenuto che si fa forma formata. Tale contenuto ovviamente non può essere definito arbitrariamente dal processo di interpretazione pena il mutismo dell’opera. Come dice Umberto Eco il gioco dell’interpretazione presuppone che si sappia stare al gioco.

[7] Giulio Paolini, in Giulio Paolini a Rivoli: una conversazione, a cura di Silvia Bottani, in «Doppiozero», 22 novembre 2020

[8] Giulio Paolini, cit. 2020

[9] “La povera Monna Lisa se n’è andata perché, per quanto meraviglioso possa essere il suo sorriso, è stato visto così tanto che è scomparso.” Cit. in: Calvin Tomkins, Marcel Duchamp. Le interviste pomeridiane, (1964), Milano, Postmedia, 2020

[10] Byung-Chul Han, 2012, La società della trasparenza, Milano, Nottetempo, 2014

[11] Edgar Windt, 1963, Arte e anarchia, Milano, Adelphi, 1968