La fine dei numeri

gennaio 2024

 

Sono diverse le fonti che concordano nel riportare come le pagine mancanti del codice Latinus Vaticanus 1970, scomparse durante i tumulti del 1848, custodissero una storia che raccontava di quando i numeri finirono. Il testo rimasto è confuso e lacunoso, ricostruito qual è per frammenti, voci, ipotesi e testimonianze apocrife.

 

Il passato fu il tempo di una numerologia sontuosa e lussureggiante. Numeri raffinati, sottili e minuziosi come merletti (il ventisette, il cinque, alcune varianti del novantuno); o straripanti di esuberanza barocca, come il cinquecentottantanove o l’ottantacinque. Cattolici e untuosi, come l’otto e il dodici; frizzanti, come il trecentotrentasette; veloci e predatori, come il tre o il quindici o anche il quarantanove (ma su quest’ultimo il giudizio non è concorde). Alcuni sono a tal punto celebri (e celebrati) che ripeterli è in realtà un puro esercizio di ecolalia: la tetraktys pitagorica, la triade (altrettanto pitagorica) tre-quattro-cinque, lo zero, il numero di Avogadro, l’ultimo teorema di Fermat. Ma anche l'Uno platonico e plotiniano; il dodici, numero degli apostoli e dei mesi; il quattro (gli evangelisti, i cavalieri dell'Apocalisse, i punti cardinali, gli elementi fondamentali della filosofia naturale dei greci), il sette e il settanta volte sette (detto e scritto così, puri addendi senza risultato).

 

Altri numeri, detti infiniti, ostentano il fascino rétro di una femme fatale, una dama del lago che scruti il mondo dietro i veli del proprio cappello.

Formule, equazioni, algoritmi, calcoli differenziali: i numeri nascevano così, con naturale abbondanza e cadenza quasi quotidiana. Gemevano i torchi a stampare pagine e pagine di cifre, e i dotti trepidavano in attesa delle ultime novità come un attore aspetta febbrile, dopo la prima teatrale, l'uscita delle recensioni. Con l'avvento dell'ultimo secolo tutto cominciò a cambiare. Dapprima quasi impercettibilmente – ma parlarne, oggi, è già un atto d’accusa verso passate negligenze – e poi in modi sempre più aperti e sfacciati. Numeri dozzinali, blandi e grossolani, alcuni volutamente (provocatoriamente) appena sbozzati, ruvidi al tatto e sgradevoli ad ogni senso, epigoni di un fardello la cui esecuzione cadeva in una crescente indifferenza; una banalità dilagante e un disamore che tracimava ormai al di là delle buone maniere. Insomma, non ci si credeva più, o forse era diventato di moda il cinismo numerico, quando non il disprezzo. Si cominciarono ad alzare voci sussiegose: qualcuno azzardò – da principio cautamente – che mutatis mutandis e con tutto il rispetto, in definitiva, a esser franchi e a dirla tutta, occorreva prendere atto che questi numeri avevano un pochino (si disse proprio così, "pochino") stancato. La levata di scudi dei nostalgici apparve stanca e tardiva. Quando l'idea fu ripresa, come era fatale avvenisse, all'indignazione d'ufficio subentrò la polemica, il dibattito accigliato e i distinguo, i quali tuttavia significavano tacitamente la possibilità che sì, forse si poteva, e magari si doveva,, anzi certamente e urgentemente occorreva fare a meno dei numeri, tanto più se i numeri – e lo sguardo si allargava a destra e sinistra, con un gesto come a includere quella che si intuiva essere una pletora di oggetti insignificanti e di cui ormai si stentava a comprendere il senso –  erano questi. Seguiva un sospiro, a sigillare la coscienza sporca con un simulacro di rimpianto che era ormai, in realtà, una profanazione a cielo aperto.

 

I primi a cadere (nomen omen) furono i numeri primi, vittime di un rancore covato a lungo sotto la cenere. Gli ultimi furono i numeri della fede e della superstizione, le cabalistiche aritmetiche della simbologia popolare. Caddero uno dopo l'altro, con tonfi regolari: il tredici, il diciassette, il sette, alla fine persino il tre, nonostante la feroce opposizione dei cattolici. Quanto ai numeri periodici, a quelli irrazionali e alle frazioni, non ci fu neppure bisogno di sopprimerli: scivolarono naturalmente nell’oblio, come foglie morte. Qualcuno sopravvisse più a lungo, in alcune pieghe nascoste dell’alfabeto, ma furono salvezze effimere.

L'ultimo numero vide la luce, stancamente, in un giorno d’aprile che il testo descrive come freddissimo. Ormai nessuno ci credeva più, ed è inutile dire (ma forse utile scrivere) che fu accolto, come si suol dire, da un assordante silenzio. Da allora ci si acconciò a soluzioni di compromesso, per dilazionare l'inevitabile, forse per un rigurgito di pietà o di cattiva coscienza. Non ci furono più numeri nuovi, ma solo riproduzioni: copie, multipli o sottomultipli, in qualche caso imitazioni e anche contraffazioni (continuavano ad esserci appassionati numerofili e, come sempre, collezionisti, commoventi sacerdoti di un dio scomparso); a volte restauri e ammodernamenti, nella speranza che cucinarli con qualche spezia li rendesse più appetibili, in vista di tempi migliori.

 

L'ultimo numero fu un multiplo dispari di 697, di cui non ricordo esattamente la cifra. Anche la memoria numerica ci sta lasciando.

 


Ready-made bestiarium

novembre 2022

 

Il panglossus è un mammifero di medie dimensioni dall’indole irrequieta, di pelliccia corta e colori cangianti, con lunga coda e zoccolo fesso. Animale logofilo, sua caratteristica è il nutrirsi di linguaggio, perché dice l’Apostolo «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio» (Gv 1, 1). È goloso di congiunzioni (ma, sebbene, ciononostante) e soprattutto di avverbi (allorché, tuttavia), in particolare quelli di natura visiva come sopra, formalmente, lontano. Quando ne trova, li copre svelto con gli zoccoli anteriori e poi li mastica con lenta ruminazione; oppure li sottrae furtivo e li nasconde negli interstizi tra copula e predicato nominale. Il libro del Genesi riferisce che nell’Eden il panglossus si cibava solo dei frutti dell’Albero della Deissi (là, questo, ecco), convinto che il semplice atto di indicare potesse determinare, in virtù della perfezione del linguaggio edenico, la natura stessa della cosa. Da ciò la passione attuale del panglossus maschio per ogni genere di titolo, didascalia o etichetta.

 

Secondo fonti arabe (Al-Razhes, Summula universalis bestiarum) esisterebbe una specie priva di coda e dal pelo lungo, cinica e irrisolta, la quale si nutrirebbe solo di quantunque, che tuttavia tende spesso a confondere, per inspiegabile alterigia, con aggettivi qualificativi e interiezioni. Ma la lingua dell’Infedele è per sua natura biforcuta: ricettacolo di blasfemie e sentina d’ogni vizio, «bronzo che risuona o cembalo che tintinna» (Cor 1, 13, 1), pulvis et umbra.        

 

Il nemico naturale del panglossus è l’artifex, animale mansueto dotato di penne e che tuttavia non vola, con zampe simili a quelle dell’albatros. Dice Ratramno di Corbie che quando il panglossus gli si trova di fronte, si recide i testicoli con un morso e glieli getta, poi si mette in posizione eretta sulle zampe posteriori per mostrare la mancanza dei testicoli, di cui crede che l’artifex sia ghiottissimo, e farlo desistere dalla lotta.

 

Letale per il panglossus è ingerire preposizioni articolate, come dalle o sugli, strumenti del Grande Tentatore poiché turbano con la loro artificiosità la natura semplice della creazione divina[1]. Ma alcune specie invece ne sono ghiotte e non mangiano altro. I loro ricettari hanno raggiunto una tale complessità – con sette livelli di incisi e parole composte da 88 lettere, quante le costellazioni dello zodiaco – che alcuni li considerano retaggio della confusione babelica. Anime perse, ahimé, blandi simulacri succubi ormai del Principe delle Tenebre.

 

Jacopus de Modoetia, Legenda nova de chimeris in vacuo bombinantibus

 

[1] Da alcuni passaggi del testo sembra che l’alimentazione dell’artifex sia regolata da una semantica epistemica: si nutre infatti non di ciò che è avverbio o congiunzione ma di ciò che egli ritiene essere – o gli si è fatto credere che sia – tale. Michele Cesarius da Busto, nel suo Speculum ymaginorum, racconta di un panglossus che, moribondo per essersi saziato con aggettivi scovati nei brandelli di un manoscritto, fu risanato dalle parole di san Giovanni Crisostomo, che lo avrebbe persuaso della loro natura avverbiale.

 


Sulla Linea

marzo 2022

 

Si può vivere sul bordo? Verrebbe da scrivere: a cavallo del bordo, come si dice “a cavallo della staccionata” o “a cavallo del secolo”. Perché il bordo è una linea sottile, affilatissima; un non-luogo, l’ipostasi linguistica di una differenza, di uno scarto che non occupa posto, che non è anche se lo vediamo. Heidegger e Jünger ci hanno provato (Oltre la linea, Milano 1989), scambiandosi lettere sul nichilismo (la lama tagliente del loro bordo) con la paziente frenesia di giocatori che sganciano briscole sul tavolo. La conclusione è che si, si può e anzi si deve vivere sul bordo, sul crinale del nichilismo. Cavalcarlo, per così dire, oscillando tra il rifiuto (anacronistico) e l’accettazione (ingenua) di quello che è lo spirito del tempo. Non c’è altro luogo dove stare.

 

E tuttavia il loro è pur sempre un pensarlo, non viverlo. Si potrebbe obiettare che pensare è una forma del vivere, o che comunque non è possibile (per quanto ne sappiamo) pensare senza essere vivi. Tuttavia la vita non ha altri luoghi oltre ai propri: non si vive per procura, in una lontana colonia, ma si vive sempre qui, adesso, in questo luogo. Posso pensare l’oltrevita, ma quando mi ci ritrovassi, non potrei far altro che viverlo, e viverlo lì. In paroloni, l’oggetto della vita è immanente ad essa quanto quello del pensiero può esserle trascendente. Pensare il bordo del nichilismo, invece, è sempre possibile, anche dalle pareti di legno stagionato della baita di Heidegger. Si tratta quindi di riflettere su cosa significhi “vivere sul bordo” (metto tra parentesi l’espressione, perché forse è appunto solo una formula linguistica, come la chimera di Rabelais che, penzolando nel vuoto, si nutre di intenzioni seconde), indagare la sua irriducibile differenza: mediare tra due estremi, mantenendo un piede da una parte e uno dall’altra? Annullare le differenze tra gli spazi che delimitano il confine, in nome di una medietà che possa così trovare luogo e definizione? Fissare il punto di passaggio di un gradiente, come in una scala cromatica dove a un certo punto un colore diventa un altro? Individuare il punto di resistenza, la soglia critica, l’angolo cieco dell’esistenza? Le domande sollevano questioni: problemata, “cose che ci poniamo di fronte”. Eppure anche questo è un modo di vivere, e non dei peggiori.

 


Un pezzo facile: istruzioni di montaggio

gennaio 2022

 

Il testo va innestato sul perno concettuale (sostituire con “insiste sul pivot concettuale” nella versione definitiva) costituito dal fatto che anche il termine “bordi” è un oggetto (linguistico, grafico, fonetico) ed è di conseguenza dotato di un bordo, di estremità tramite le quali prende le distanze da altri oggetti, dallo sfondo della realtà e in fondo da sé stesso (in che senso? Lasciare comunque nel testo). Sottolineare en passant che lo stesso potrebbe dirsi di qualsiasi oggetto, esistente o inesistente, che è tale in quanto definito dai propri confini identitari, ma insomma… (chiudere in glissons, in modo da ottenere rispetto per la singolarità del punto di vista e al contempo fugare l’accusa del cavillo sofistico). I due bordi sono la lettera “b” e la lettera “i”, ovviamente (inserire l’avverbio nel testo), e ciò significa intendere il termine in suppositio materialis (senza spiegazione: lasciar agire sul fondo, come l’ombra in un chiaroscuro). Ci si muove quindi in un contesto che prescinde dal contenuto semantico o che quantomeno non ne fa il focus dell’analisi (forse che i bordi possono esistere anche senza un centro, un nucleo di significato, colonne di un tempio che non esiste? Valutare se esplicitare il dubbio o se sia meglio mantenersi allusivi). L’attacco del pezzo va calibrato con cautela, perché la trovata – occorre ammetterlo – è di grana grossa e non fa conto di giocare sull’effetto shock; meglio puntare a una complicità più tiepida ma affidabile: un’increspatura del labbro superiore, l’accenno a un moderato compiacimento nella contrazione del muscolo zigomatico minore (anche quello maggiore andrà bene), un brillio fugace, come il fantasma timido di un’intuizione, nell’iride (non la pupilla) del lettore. Tanto basta, e basterà.

 

Proseguire in modalità tema libero. Le due estremità linguistiche di “bordi” sono bordi solo intendendo “bordi” come termine linguistico (mantenere retoricamente la ripetizione anaforica del termine). Se fosse un segno grafico, confini sarebbero anche le estremità in alto o in basso dei caratteri: l’asticella della “b” e della “d”, ad esempio, o il basamento della “i”. Lasciare la questione in sospeso, simulando understatement con la disinvoltura di cui si è capaci. Qui l’uso di congiunzioni e avverbi di modo andrà calcolato con grande accuratezza: il lettore deve sentire la divagazione sul tema come lo stile del pezzo e il suo prezzo. Evitare accuratamente le manovre dilatorie, i sotterfugi, i depistaggi di chi brancola nel buio cercando appigli in esangui barocchismi linguistici. 

 

Passare senza indugio a esporre il cuore del ragionamento. In breve, lo sviluppo è questo: definire il bordo linguistico, sottolineando che in questo modo lo si pone in relazione con altri bordi, altri confini, altri termini; far notare che, così facendo, il bordo si costituisce come anello di congiunzione del tessuto linguistico (utilizzare in ordine sparso formule quali “motore semantico del testo”, “sinapsi morfologica”, “molecole sintattiche”); inferirne che la sua natura non è la marginalità come insignificanza, al contrario il bordo, dalla periferia morfosintattica dell’impero per così dire, governa la composizione degli enunciati; ricordare che la sillaba finale della parola (desinenza) identifica il genere e dunque è decisiva nella definizione dell’oggetto (evitare riferimenti al dibattito sulle differenze di genere nel linguaggio). Il testo dovrà abbondare di vocaboli tecnici, meglio se aggregati tramite aggettivazione: di conseguenza, bene termini come “enunciato”, “sinossi”, “particella linguistica”, ma soprattutto perifrasi quali “periferia morfosintattica”, “anafora del bordo”, “insistita paratestualità dei lessemi”, “marginalità affabulatrice”; o anche espressioni fuori contesto come “core business della semantica testuale”, “pivot sintattico”, “parassita ontico” e così via.   

 

Chiudere sull’inedita immagine imperialista e colonizzatrice del bordo (senza clamori, ma lasciando intuire qua e là che qualcosa ribolle sotto), margine centrato e centrale (mantenere l’endiadi), forma linguistica di una dialettica servo/padrone dove il primo, hegelianamente, subordina a sé il secondo (insistere sul paludamento hegeliano della chiusura, che altrimenti rischia di essere piuttosto debole). Oppure sparigliare le carte con un finale spiazzante, tipo: “Non c’è modo migliore di scorgere quel tempo che freme, quel margine ostile di un inchiostro slavato; forse si può ancora leggerlo, con l’aiuto di uno di quei dizionari dalle pagine rossastre ormai ossidate, nei versi del Cimitero marino di Valery: E il cielo canta all’anima il consumo / Le rive che si mutano in rumore?”. La citazione va scelta per la sua contiguità semantica con il tema ma evitando ogni effetto didascalico: resterà soltanto un vago sentore, un’eco eterea e lontana, intellegibile quanto basta per poterne seguire le tracce ma senza che si possa fissarla in una forma verbale, un sussurro indecifrabile che si allontana nella pianura, l’ombra di un filo invisibile capace di esistere solo tramite la sua assenza umbratile (“assenza umbratile” nel testo).

 


Per un dizionario dei confini letterari

ottobre 2021

 

Dalla parte di Swann o dalla parte dei Guermantes. Ma anche dalla parte di Meseglise. In ogni caso, du côté de chez Proust.

 

I confini mobili dei movimenti della tigre, nella tenuta di don Nicanor a Los Horneros (Julio Cortázar, Bestiario).

 

Lo spazio minimale del diaframma, soglia bifronte resa abitabile dalle parole: Quando Gregor Samsa una mattina nel suo letto si svegliò da sogni inquieti, si ritrovò trasformato in un immane insetto. Dottor Jekyll e Mr. Hyde, Dorian Gray e il suo ritratto etc.

 

Chatwin: viaggiare, sempre e ovunque, arrivare alla fine dei mondi solo per abbandonarli, per dimostrare che i confini non ci sono, non possono, non devono esserci. Lepri in una gara di mezzofondo, che trascinano al traguardo per poi svanire. Eppure volti, luoghi, istanti confinati nei taccuini neri Moleskine…

 

I tartari di Buzzati, bordo solitario e polveroso, orizzonte del tempo che dilata la soglia, la rende scettica.

 

Il libro di sabbia, infinito, senza fine o inizio. Alla pagina 40.514 succede la 999, solo per una volta e poi mai più.

 

Geografie dell’immaginario: Atlantide e Utopia, il cimitero marino di Valery, Flatlandia, la Montagna Incantata, Macondo e le terre della Mamá Grande, Long time ago in a galaxy far, far away.  

 

Cosa ci faccio qui? (Arthur Rimbaud ad Harar, dicembre 1880)

 


Testo per bordi

marzo 2021

 

 In principio era l’Azione

 (Goethe, Faust)

                                                                                                                                 

 Si discute di bordi, lembi e altri margini. E se ne discute, va da sé, in termini di spazio: entità minimali e discrete, propaggini di terre esotiche e sconosciute. La metafora del locus, interiore ed esteriore, è comune e sempre utile: indica l’oggetto della discussione, lo fissa e lo definisce (o almeno ci prova), gli dà una dimora, lo rende stanziale. Mi domando se insistere sui margini (nel senso di esserci e starci, frequentarli, oppure “abitarli” se vogliamo heideggereggiare) non ci conduca a ripensare i margini senza la marginalità; ovvero senza fare una necessità della libera contingenza con cui ci muoviamo attorno ai lembi del mondo, senza farne un controsistema che riprodurrà, specularmente, quello dal quale ci teniamo distanti, il cuore pulsante dell’impero. Senza opporre il Margine al Sistema, insomma.

Mi domando quindi se il lembo non sia il rifugio della marginalità, o una sua buona scusa. Per questo diffido del simbolismo spaziale: mi sembra imbrigli la natura nomade che ferve nei bordi e nei lembi, ne faccia appunto qualcosa di stanziale, di concluso e risolto, come una riserva indiana che, nel momento in cui custodisce, spegne poco a poco la scintilla della vita. Per questo proverei a ragionare sui bordi dal punto di vista del tempo: perché lo spazio può essere occupato in forme sempre più precise e pervasive, ma il tempo no, il tempo si dilata verso un futuro infinito e indefinito sul quale la presa è molto relativa. E’ l’idea di uno sguardo che osserva attraverso lo spessore di una distanza, come citava Ermanno nella sua lettera. Quella distanza è ciò che rimane degli atti con cui tracciamo, facendole e disfandole continuamente, le linee di confine dei nostri oggetti, di ciò che sappiamo e di ciò che creiamo, anche dunque di ciò che siamo (come in quel testo di Borges, dove le linee con cui cerchiamo di fissare i confini del mondo disegnano, nel corso degli anni, il volto di chi le ha tracciate). Altrimenti, che differenza ci sarebbe tra bordo e centro? Perché immaginare che le operazioni in un luogo o nell’altro dovrebbero essere radicalmente differenti? E chi decide dove si colloca il bordo, dove e come si profilano i suoi margini? In fondo, non ci sarebbe differenza “nel fare” tra un artista del bordo e uno del centro, tra un apocalittico e un integrato. Non diventerebbe, il lembo, un refugium peccatoris dove il fare è sostituito dal parlarne, nella sua versione peggiore che è quella del lamento sui tempi? Invece ragionare su bordi e lembi offre la possibilità di porsi questioni diverse: a che punto si passa dalla verbalizzazione del margine alla sua pratica? Quando, invece di discutere di arte ai bordi, ci si può porre dalla prospettiva del margine per creare? E cosa potrebbe significare creare opere che siano in sé lembo, solo lembo? E’ possibile una parte senza il suo tutto, il bordo come rifiuto del proprio contenuto, come propria impossibilità?

Per questo il lembo – mi sembra – è tempo più che spazio, è l’operazione con cui fissiamo l’ordine mobile dei confini attorno ai quali ci muoviamo: il confine è sempre una questione di distanza, della giusta distanza da cui guardare le cose per fissarne i contorni. “Bordeggiare”, appunto. Per questo scrivo “mi sembra”, non per un vezzo di malcelata modestia: il lembo appare, prende forma e poi la perde, si riforma in assetti instabili e diversi. E’ azione più che cosa. Più che collocarsi ai margini dello spazio, insomma, più che essere l’estremità, periferia o confine, il bordo è il rifiuto dello spazio: risvolto poetico della definizione, eresia della totalità.

 

 

31 gennaio 2021