BORDI è un piano gassoso su cui deporre parole e immagini a formare costellazioni di domande che trovano le loro risposte in altre domande. BORDI è a cura di Cesare Biratoni, Ermanno Cristini, Roberto Limonta

BORDI è parte di R + S / AK , entità impronunciabile senza scopo di marchio.

Prima di partire

Cesare Biratoni, Ermanno Cristini

Ciao Ermanno,

se penso al bordo, termine che tu hai suggerito di usare come titolo per la nostra discussione, mi viene in mente anche un suo possibile sinonimo: lembo. Entrambe le parole rimandano a qualcosa di marginale, a tratti di estremo, nel senso che stanno proprio alla fine di qualcosa, al termine di una terra conosciuta. E’ quindi un’impresa avventurosa (o esplorativa?) quella di aprire un dibattito sulle pratiche artistiche che vivono e insistono a permanere fuori dal cosiddetto mercato? Te lo chiedo, non senza una punta di ingenuità e di urgenza, anche perché nelle nostre più recenti discussioni di carne al fuoco ne abbiamo messa tanta: aspetti etici legati alla dimensione "politica" e resistente dell'arte, la centralità dell'opera e l'esposizione della stessa, una generale ricerca di senso della (e nella) condizione marginale nella quale si ritrova a vivere e ad operare gran parte del mondo dell'arte che frequentiamo. Io non sono un teorico, vivo di pratica quotidiana, le mie domande nascono da un bisogno maturato nel tempo, che come nel lavoro manuale, suggeriscono attraverso il fare una linea di pensiero. Per questo ti chiedo di cominciare tu, che invece con gli aspetti teorici hai sicuramente più pratica del sottoscritto, a srotolare la matassa. Da dove cominciamo? 

  

Caro Cesare,

in questi giorni stavo leggendo un libro di Enrique Vila-Matas, Storia abbreviata della letteratura portatile, e come spesso suggeriscono di fare le letture fresche comincerei da lì, da un passo che mi sembra contenere quello che alla fine è la ragione di tutto: “Walter Benjamin era anche anima gemella di Marcel Duchamp: ambedue vagabondi, sempre in viaggio, esiliati dal mondo dell’arte e al tempo stesso collezionisti arrabbiati di cose, o, per meglio dire, di passioni.”

Se c’è una dimensione etica nel fare artistico -e in assoluto ha da esserci per forza visto che stiamo parlando del recto e del verso di una stessa medaglia- essa sta proprio nel fare in sé, nella sua specificità, che è poi la capacità di consumare un continuo stato di esilio, uno sguardo nutrito dallo spessore di una distanza.

La qualità di ciò che si usa definire con il termine “impegno”, ovvero la capacità dell’arte di graffiare il mondo, necessaria per definizione ma tanto più necessaria in tempi di crisi come questi, passa attraverso una forma di distacco dal mondo. Viene in mente il pensiero di Agamben circa la necessità di una sfasatura, una sorta di anacronismo, come condizione per essere contemporanei, anziché semplicemente attaccati al presente.

In tale prospettiva la marginalità diventa un valore e anche la questione della “solitudine”, o estraneità, rispetto al mercato si trova a riguardare il potenziale euristico del “fallimento” in contrapposizione alla mitologia del successo.

Dunque per srotolare la matassa non ci resta che perderne il bandolo lungo il terreno friabile dei bordi, quel luogo che perimetrando apre, perché non avendo nozione certa del dove e del quando, lì le cose affiorano e scompaiono nella loro indeterminatezza.

A proposito, si dice che tra il corpo inanimato di Robert Walser e le sue impronte ci fosse almeno un metro di neve intonsa.

bordeggiare


bordeggiare v. intr. [der. di bordo] (io bordéggio, ecc.; aus. avere). – 1. Navigare di bolina, per risalire contro la direzione del vento, compiendo una serie di tratti (bordate), col vento ora a diritta e ora a sinistra, seguendo cioè una rotta a zig-zag, il cui asse si trova appunto nella direzione del vento. 2. fig., non com. Destreggiarsi fra ostacoli, fra difficoltà. Anche, sfiorare una questione, un argomento, evitando di affrontarlo: è inutile b., voglio una risposta precisa.

(Vocabolario Treccani)




Tightrope Walk

Hannes Egger

Tightrope Walk è un' audioperformance nata all’interno del progetto Bivacco, realizzato nel 2019 per la 58. Biennale di Venezia.

Nel 2019 ricorreva il centenario della firma del Trattato di Saint-Germain, quando il Tirolo venne diviso in due e in seguito l'Alto Adige e il Trentino furono incorporati nello Stato Italiano. Questo originale, antico bivacco di montagna rappresenta uno spazio aperto, transfrontaliero e sicuro in cui – come nello stesso Alto Adige – gli ideali europei di pace e convivenza vengono praticati e promossi su scala mondiale, quotidianamente.

 

 

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Collage, pareidolia e teste composte

Cesare Biratoni

Le teste di Arcimboldo sono figure retoriche[1]. Esiste una stretta correlazione tra le cose che compongono le teste del pittore lombardo e il tema che vogliono rappresentare o al quale alludono più o meno direttamente. Gli oggetti cambiano di significato sia sulla base della posizione in cui si pongono nei confronti del tutto che per la loro specifica angolazione; anzi, è l’intera testa ad essere letta in virtù del determinato punto di vista di chi la osserva. Le cose si collocano misteriosamente una accanto all’altra, per poco, spinte da chissà quale corrente o vento, si ritrovano ad essere fuori luogo, come il famoso ombrello e la macchina da cucire sul tavolo operatorio citato dal poeta Lautreamont.

Le leggi della geometria euclidea e la bidimensionalità del dipinto fermano questo istante per sempre, lo inquadrano (delimitano) e lo trasformano in un soggetto. Sono queste leggi che determinano il suo punto di vista. Funzionano perché gli oggetti sono piatti, congelati nella bidimensionalità del piano pittorico, altrimenti, se potessimo ruotare la testa dipinta il risultato sarebbe senz’altro deludente, e ci ritroveremmo a guardare una specie di fantoccio senza vita, più simile ad una maschera informe che ad un vero e proprio “personaggio”.

 

Credo che questa sia anche l’essenza del collage; anch’esso si avvale di un fortuito e casuale accostamento e, come le teste di Arcimboldo, funziona solo quando ogni oggetto che lo compone assume una precisa posizione nell’insieme. Gli elementi del collage provengono da aree semantiche che restano visibili ma che si trasformano nel momento in cui si accostano ad altro; proprio come la pera diventa un naso o un fungo un paio di labbra sporgenti perché si trovano in quell’area del dipinto. Verrebbe da pensare che il collage sia una composizione di oggetti vista per caso,… una pareidolia, un’immagine che funziona solo se vista in un unico modo. Assemblaggi che  non sono stati composti per durare in eterno, ma che vivono di quella casualità.

 

Come la pareidolia, il collage è vincolato direttamente all’osservatore. Il ritaglio, il frammento non potrebbe stare in altra posizione se non in quella in cui, per cause difficili da comprendere senza ricorrere alla correttezza anatomica di Arcimboldo, si trasforma in qualcos’altro; senza cambiare la sua forma assume tutt’altro significato, spezza la dicotomia del significato/significante che lo aveva caratterizzato fino a quel momento. E come quando osserviamo le nuvole sdraiati a pancia all’aria sul prato e aspettiamo che si formino delle immagini: guarda! sembra un cane, una testa, un dinosauro ecc.

 

Max Ernst scriveva: “L’autore deve assistere come spettatore alla nascita dell’opera e portare avanti le fasi del suo sviluppo con indifferenza o passione. Così come il poeta spia il corso automatico del suo pensiero e ne annota gli accidenti, il pittore butta sul foglio o sulla tela ciò che la sua ispirazione visiva gli suggerisce.”[2] L’artista si dovrebbe quindi limitare ad indicare con il dito? E’ il dito (da cui si proietta una linea) che ci dice cosa guardare, da quale angolazione osservare e su cosa soffermare maggiormente la nostra attenzione? Il gesto dell’indicare ci riporta inevitabilmente ad un dato fisico, al braccio che deve sostenere il punto su cui vale la pena di posare lo sguardo, e ci restituisce anche una precarietà e una temporalità non determinata; è come se dicesse: adesso guarda qui,…e adesso lì,…ora guarda quest’altra cosa, e ancora, e ancora.

 

 

[1] Barthes R., Arcimboldo, Milano, Abscondita, 2005

[2] Max Ernst, “Che cos’è il surrealismo”, in AAVV (a cura di), Max Ernst, Macerata, Quodlibet, 2021, pp. 48.



Accasarsi

Ermanno Cristini


Ermanno Cristini, Accasarsi (quello), 2009-2021, sapone di marsiglia, basamento per sculture, dimensione variabile


I bordi si sbeccano

Concetta Modica

I bordi sono sempre difficili, le pochissime volte che mi sono avventurata a fare una torta, i bordi mi hanno sempre smascherato. Quelli delle mie ceramiche e dei miei piccoli affreschi negli ultimi tempi sono i più preoccupanti, hanno bisogno di mille attenzioni. Si potessero sfumare con Photoshop sarebbe tutto più facile.

 

I bordi degli oggetti sono spietati quanto quelli della vita. Quelli delle cose e delle opere si scheggiano: ho preso un sasso spaccato a metà, affiancando le parti sembrava intero. Il tempo di portarlo con me e si è sbeccato.

L’arte, la poesia e la letteratura hanno a cuore il tema della rottura, dell’errore, del fallimento, della crepa, dei cocci; si affacciano dal bordo rotto e vedono la realtà più clemente.

 

Se faccio un vaso, lo faccio pieno di crepe, se uso un diamante, ci faccio un buco al centro, se raccolgo dei sepali di pomodoro, fuori dai bordi del campo diventano stelle d’oro nel cielo, se ci sono libri, li scompagino, metto insieme tutte le introduzioni, in modo che ogni pagina sia un nuovo inizio, eliminando i limiti tra le cose, spostando i bordi.

 

Sembra un continuo allontanarsi, ma non è cosi; le cose spesso sono più vicine di quanto sembrino.



Ai bordi di una linea bianca

Gabriele Di Matteo


Buon anno Ermanno! sempre ai bordi di una sottile linea bianca.

Buon anno Gabriele bordeggiante ai bordi

Gabriele, la usiamo per BORDI la tua immagine?

Se per te va bene si

Ottimo!

Questa immagine l'ho fatta quando c’è stata la crisi in Grecia che rischiava il default. I colori della tenda sono quelli della bandiera greca.

Ah ok, non avevo colto. Se vuoi che sia precisato mandami due righe- Oppure posso anche usare questo scambio in Whatsapp tale quale è ?

Va bene



L'arcobaleno di Walter Benjamin

Susanna Baumgartner

Incontrando l’arcobaleno, che è  colore, quando meno te lo aspetti, come in un sogno, sapendo che molto probabilmente l’avrai già incontrato in un sogno.

 

L’arcobaleno di Walter Benjamin inizia con il racconto di un sogno prima che svanisca. Un sogno che in realtà non si può raccontare e che viene descritto come un paesaggio. Un paesaggio che arde di colori che neanche i pittori conoscono. Questi colori possono creare infiniti paesaggi e ti permettono di non essere altro che occhi o il colore stesso. Un senso di ebbrezza che pervade chi sta nelle cose, in una sorta di oblio o intervallo o sospensione. Questa condizione rende leggeri e l’essenza delle cose si apre allo spazio, all’infinito. In questo caso il colore è l’oggetto e nello stesso tempo l’organo che lo percepisce. Ci appare nella pura ricezione, cosi come il bello.

 

Nella pittura abbiamo un riflesso. L’apparizione sta ai bordi come al centro e irradia bellezza che non si può cogliere, si può solo ricevere.



Cara mamma

Marco Salvetti

Cara mamma,

aveste ragione, non ci può essere una teoria dell'arte senza una teoria della vita.

Eppure non è possibile una teoria della vita

perché la vita è il no sopra ogni verità.

Mamma, io non voglio morire ma devo morire.

 

Cara mamma,

diceste bene, fintanto che non vivremo

la nostra arte mai svolazzerà come i rondinini nel sereno.

 

“Un vero esperto della banalità / ha da essere quest'artista

affinché ami / come una bestia”

 

Questo scrisse il babbo dal fronte, dopo mesi di silenzio.

 

“Il resto son solo carrieristi di professione

monogami dell'arte

chierici del pennello comari di paese

imboscati sottoni

toglietevi le mutande

mostrateci i vostri schifi

impazzite la bestemmia

dio merda

nel nome di un'ammore troglodita

di un'utopia secolare

vi stringo, cara moglie, balocchini miei, su questi bordi è il disgelo...

babbo è vivo e vi pensa forte

è una domenica mattina di rondini nel cielo

e vi penso forte”.



Divieto di accesso all'opera d'arte

Umberto Cavenago


Umberto Cavenago, Sweet Home, 2023,acciao CorTen, scultura mobile, aperta e praticabile; Comune di Suzzara, cartello dissuasivo, 2023


Smarginare

Giovanni Blanco

Mi capita spesso di pensarmi altrove, oltre il bordo del presente. In uno spazio altro e ulteriore dove la parola rinvia inevitabilmente alla pittura, alla poesia, e trova pienamente quella necessità e familiarità con l'ordinario. Una condizione immaginata tanto straordinaria da essere percepita da un'ipotetica comunità come indispensabile. Come gesto politico vero, finanche.

È forse questo il luogo nel quale desiderare di vivere? E dove si trova? Mi dico sottovoce. Uno stato d'eccezione, una grazia che misura le altezze e le profondità secondo parametri di scambio e di confronto nuovi, per andare oltre, per sconfinare il più possibile, rinvigorendo il proprio immaginario.

Forse è allo spazio dell'utopia a cui mi riferisco? Sto facendo allusione a quel territorio in cui ciascun artista sborda, inciampa, esclama e declama tutte quelle idee (anche terribili) che fanno dell'Arte la "terra promessa" della visione?

Mi pare naturale che in questa terra ideale sia possibile afferrare il senso e l'appagamento sinceri nel vedersi riconosciuti come indicatori di un viatico: un territorio magico abitato da visionari e profeti, dove i dubbi e le domande si distillano fruttuosi al fine di innestare e disinnescare nelle coscienze di chi quel territorio lo vive quegli anticorpi-pensieri capaci di neutralizzare gli abbagli sensuali del tutto uguale a tutto.

Girando attorno a questo ragionamento, dopo aver vissuto per vent'anni a Bologna, l'essere ritornato in Sicilia - ho scelto Modica come luogo d'elezione - ha inevitabilmente comportato un ridimensionamento dell'offerta culturale in senso più ampio.

Purtuttavia, sull'isola mi è venuto più semplice dare spazio a quei bisogni e desideri intimi di condivisione con l'altro, liberando pure quell'urgenza della voce che si colloca in quegli "interstizi di solitudine e di silenzio" - per dirla con Deleuze -, animando gesti e forme in modo differente.

Il contatto sensibile con le piccole comunità è talvolta capace di intensificare le visioni a cui affidiamo le nostre esistenze, probabilmente a causa di quel senso di sottrazione che per diverse ragioni non può essere arginato, circoscrivendo, nel bene e nel male, ogni risultato raggiunto in un perimetro di possibilità e respiro più corti. Ma per me, sia detto chiaramente, a quarantaquattro anni suonati questo è l'unico modo per ritornare alle cose.

Mi domando ancora: dare sostanza a quel riflesso umanissimo che origina sempre dallo specchio del mondo, per scorgere quel fantasma e quel corpo che noi siamo, è forse il fine ultimo della nostra ricerca? Uno specchio simbolico e potente, non privo però di ambiguità e di polarità contrapposte, e tuttavia plastico, dove le parole e le immagini modellano il reale e si fanno risonanza estetica e morale tali da rinviare a una moltitudine di esperienze (e di sguardi?) per superare - quando va bene - quel gap che ci estranea dai clangori che animano le piazze e le strade di altre geografie.

 

Dalla Sicilia tutto mi appare più bello, e ciò mi pare un buon motivo per tentare di fare ancora un quadro: un quadro che smargini oltre la cornice, assumendo la forma di un pensiero critico.



Note a margine

Collettivo damp

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Imboscarsi

Gino Gianuizzi

BORDI chiama il margine e il margine per me chiama altre letture, Il libro dei margini di Edmond Jabès e Manifesto del Terzo paesaggio di Gilles Clément.

E il mio camminare qui in un territorio che è al margine e che è margine. Bordi. Gilles Clément descrive il margine come spessore. Vivo in questo spessore, margine, limite, bordo - geografico (il crinale che domina la casa segnava un confine) e insieme mentale, luogo in cui è possibile applicare categorie (pensieri, movimenti, tempi) non urbane.

Sono in questo luogo relativamente isolato da più di venti anni. In principio era una scelta originata da un abbandono e insieme fuga da una città che si stava trasformando; in principio era anche l’altra faccia di una vita che attraverso neon regolava il mio confronto col mondo: da una parte quell’intrico di relazioni belle e ricche e intense ma anche formali e obbligate; dall’altra gli alberi intorno, gli animali, l’orto, e giornate di silenzio e di isolamento.

Poi gli imboscati. Ho lanciato un invito agli imboscati, per incontrarsi e per fare consapevole che quella che mette in relazione chi ha scelto di imboscarsi non può che essere una rete a maglie larghe, le forme e i modi dell’imboscarsi non possono essere determinate da una o più regole / ci sono imboscati che vivono appartati, hanno scelto i margini fisici, i luoghi isolati, che siano boschi o pianure o isole o montagne / ma ci sono imboscati che vivono nelle città nelle metropoli e lì si nascondono fra gli altri / ci sono artisti imboscati che hanno scelto di studiare percorrere analizzare il bosco (il bosco sta per tutto il vivente non umano) come ecosistema.

 

Ho incontrato la scrittura di Sylvain Tesson (gli incontri sono casuali e determinanti) e trovo:

«Quei tracciati a forma di stella e quelle linee punteggiate erano sentieri rurali, piste pastorali istituite dal catasto, punti di accesso per i servizi forestali, linee di confine, antiche viae quasi prive di manutenzione. Alcune erano private, molte destinate al passaggio degli animali. Tutta la carta era percorsa da quelle arterie: erano i miei sentieri neri. Fornivano delle vie di fuga; erano luoghi dimenticati dove regnava il silenzio e non si incontrava mai nessuno. A volte i cespugli si richiudevano dopo ogni passaggio. Certi uomini sperano di passare alla Storia; noi preferivamo sparire nella geografia.» (…) «Niente a che vedere con i sentieri degli escursionisti, strade segnalate, disseminate di cartelli, frequente dagli sportivi e dai politici locali che vi andavano a correre. Anche nei pressi di un’area abitata, la carta 1:25.000 offriva delle vie di fuga: un rialzo del terreno, una discesa che si notava appena, un viottolo.» (…) «Negli anni Ottanta uno scrittore provenzale, René Frégni, ha descritto in un romanzo la fuga di un coscritto renitente alla leva che traversa tutta l’Europa con i militari alle calcagna. È un libro che lascia il segno, a cominciare dal titolo: Les chemins noirs.» (…) «Un sogno mi perseguitava. Immaginavo la nascita di un movimento chiamato confraternita dei sentieri neri. Oltre a tracciare una rete di percorsi alternativi, i sentieri neri potevano anche definire i processi mentali che avremmo adottato per sottrarci al nostro tempo: disegnati sulle mappe e serpeggianti sul terreno, si sarebbero prolungati dentro di noi fino a costruire una geografia mentale dell’evitamento.» (…) «Le regole di quella dissimulazione esistenziale si riducevano a pochi imperativi: accogliere con indifferenza le novità sensazionali, sapere con chi prendersela, scegliere le cose per cui indignarsi, quelle da amare e quelle per cui provare disgusto. Passare la vita tra montagne di libri, nei boschi, insieme a tavolate di amici.»

(…) «Eravamo stufi delle parole d’ordine del nostro tempo: Enjoy! Take care! Be safe! Be connected!» (…) «Andare per i sentieri neri e cercare le radure dietro ai rovi era un modo per sfuggire al dispositivo.» (…) «Sebbene cercassi di resistere, le nuove tecnologie invadevano tutti i campi della mia esistenza. Non c’era da farsi illusioni, non erano semplici innovazioni destinate a semplificare la vita; erano sostituti della vita. Non proponevano un’allettante gamma di innovazioni ma modificavano la nostra presenza sulla Terra. Un filosofo italiano, Giorgio Agamben, in un breve pamphlet (Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo? , Roma, Nottetempo, 2006) aveva affermato che era da ingenui crede di poterle usare bene. Esse rimodellavano la psiche umana, agivano sui comportamenti, già dominavano la lingua, iniettavano nel pensiero i loro betabloccanti, vivevano di vita propria. Per l’umanità rappresentavano una rivoluzione importante almeno quanto la nascita, risalente a quattro milioni di anni prima, della neocorteccia. Facevano evolvere la specie? Ci rendevano più liberi e socievoli? La vita era migliore da quando aveva preso a passare attraverso gli schermi? Non era sicuro. Anzi era possibile che stessimo perdendo ogni potere sulle nostre esistenze. Sempre secondo Agamben: stavamo diventando il corpo sociale più docile e imbelle che si sia mai dato nella storia dell’umanità. Andare lungo i sentieri neri significava aprire una breccia in quei bastioni. Non avendo in me né la violenza del sabotatore né il narcisismo dell’agitatore, sceglievo la fuga.»

 

Sylvain Tesson, Sentieri neri, Sellerio editore, 2018

 

Eva Sauer replica alla mia mail: 

«I sentieri neri… un’immagine perfetta.

Infatti: più che imboscati siamo davvero dei Waldläufer, che seguono le strade tracciate dagli animali. Il nostro saggio istinto ci spinge oltre le strade costruite per il passaggio di quelli che non la guardano, la strada, la percorrono e basta.»



La caffettiera di Stalin

Olinsky


 

Nel lontano 1920 durante un lungo soggiorno estivo in Slavonia occidentale, lo scrittore e drammaturgo dilettante Paluonsky, la pittrice di bell’aspetto di icone floreali Irina Paplova, il pittore e compositore di sinfonie di ampio respiro Merediev e il maestro Olinsky convocano il “Primo congresso di arte proto cubistafuturista ironica“. Essi proclamano una nuova arte, dove la leggerezza, l’ironia, ed il piacere del fare artistico siano le fondamenta per una piacevole esistenza dell’artista.

Pur ribadendo l’impegno nella ricerca e l’analisi delle avanguardie, Olinsky evidenzia la prerogativa di un messaggio di un’arte per tutti e per pochi.

Nel 1923, quando ormai Stalin prese il potere in Unione Sovietica, Olinsky per omaggiarlo realizzò il primo dipinto proto futurista comunista La caffettiera di Stalin.

Il despota non gradì l’omaggio del nostro artista in quanto l’opera non rispecchiava esteticamente gli ideali socialisti.

Perseguitato dalla polizia segreta il nostro artista fuggì a Parigi con la sua giovane amante e allieva Raisa.



Collage e anamorfosi

Cesare Biratoni

Dalla Treccani online  ho ricavato questa definizione della parola “anamorfosi”, “un tipo di rappresentazione pittorica realizzata secondo una deformazione prospettica che ne consente la giusta visione da un unico punto di vista (risultando invece deformata e incomprensibile se osservata da altre posizioni).”

 

Qui ci si riferisce alla deformazione dell’immagine del dipinto, che per essere compresa richiedeva una visione tramite specchi deformanti, oppure una forte inclinazione del piano della visione (come nel dipinto degli ambasciatori di Holbein conservato alla National Gallery). Si tratta chiaramente del significante, ma si può parlare anche di anamorfosi del significato? 

 

Se pensiamo alla tecnica del collage, possiamo immaginare che l’inclinazione del dipinto oppure l’uso di lenti o specchi si trasformi in posizione sul piano, in quantità o meno del ritaglio, in nuove modalità di visione sulla base della collocazione o dell’accostamento con altro ritaglio?

Ogni frammento mantiene una sua autonomia; resta il riferimento ad aree semantiche precise nonostante la nuova posizione assunta. Ma è l’insieme degli elementi che potremmo definire come “anamorfosi”; perché è l’inclinazione che si trasforma in disposizione a definire l’immagine da guardare, ed è la composizione, benché precaria, a divenire lo strumento ottico con cui recepire un nuovo ed inedito significato dell’insieme. 

 

Dall’anamorfosi credo si possa anche desumere un senso di precarietà della visione, ed è forse l’elemento che le conferisce quell’inquietudine che pittori come Holbein volevano suggerire. Il tempo della comprensione dell’immagine è vincolato dalla possibilità o meno di mantenere le singole parti secondo quella disposizione, e non un’altra. E’ possibile che, per capire meglio, lo sguardo debba piegarsi, o sia necessario torcere il collo, socchiudere gli occhi, chiederne uno per evitare la visione bioculare. In alcuni casi i ritagli mantengono la loro fisicità, proiettando strane ombre sul piano, in altri è necessario comprimere tutto sotto un vetro (come fosse una lente?) per aumentare il senso di connessione tra gli elementi. E come nell’anamorfosi l’immagine distorta è la più semplice da mantenere perché richiede meno sforzo interpretativo (ma anche fisico), così anche nel collage i singoli elementi non perdono il forte richiamo alla loro origine, conferendo al tutto un senso dì lotta e conflitto che aumenta la sua incertezza temporale e ne determina la precarietà. 

 

L’ambiguità è il terreno comune, il luogo naturale di anamorfosi e collage; mantenendo i piedi, per così dire, in aree semantiche distinte, essi riescono ad essere una cosa e l’altra senza contraddizione, realizzandosi nell’ indeterminatezza, nell’irriducibile volontà di non essere mai del tutto una sola cosa.



The Hermit in the Garden

Pantani e Surace


The Hermit in the Garden, 2023, xilografia su MD stampata su carta bianca Fabriano Accademia 160 gr.