BORDI è un piano gassoso su cui deporre parole e immagini a formare costellazioni di domande che trovano le loro risposte in altre domande. BORDI è a cura di Cesare Biratoni, Ermanno Cristini, Roberto Limonta

BORDI è parte di R + S / AK , entità impronunciabile senza scopo di marchio.

Prima di partire

Cesare Biratoni, Ermanno Cristini

Ciao Ermanno,

se penso al bordo, termine che tu hai suggerito di usare come titolo per la nostra discussione, mi viene in mente anche un suo possibile sinonimo: lembo. Entrambe le parole rimandano a qualcosa di marginale, a tratti di estremo, nel senso che stanno proprio alla fine di qualcosa, al termine di una terra conosciuta. E’ quindi un’impresa avventurosa (o esplorativa?) quella di aprire un dibattito sulle pratiche artistiche che vivono e insistono a permanere fuori dal cosiddetto mercato? Te lo chiedo, non senza una punta di ingenuità e di urgenza, anche perché nelle nostre più recenti discussioni di carne al fuoco ne abbiamo messa tanta: aspetti etici legati alla dimensione "politica" e resistente dell'arte, la centralità dell'opera e l'esposizione della stessa, una generale ricerca di senso della (e nella) condizione marginale nella quale si ritrova a vivere e ad operare gran parte del mondo dell'arte che frequentiamo. Io non sono un teorico, vivo di pratica quotidiana, le mie domande nascono da un bisogno maturato nel tempo, che come nel lavoro manuale, suggeriscono attraverso il fare una linea di pensiero. Per questo ti chiedo di cominciare tu, che invece con gli aspetti teorici hai sicuramente più pratica del sottoscritto, a srotolare la matassa. Da dove cominciamo? 

  

Caro Cesare,

in questi giorni stavo leggendo un libro di Enrique Vila-Matas, Storia abbreviata della letteratura portatile, e come spesso suggeriscono di fare le letture fresche comincerei da lì, da un passo che mi sembra contenere quello che alla fine è la ragione di tutto: “Walter Benjamin era anche anima gemella di Marcel Duchamp: ambedue vagabondi, sempre in viaggio, esiliati dal mondo dell’arte e al tempo stesso collezionisti arrabbiati di cose, o, per meglio dire, di passioni.”

Se c’è una dimensione etica nel fare artistico -e in assoluto ha da esserci per forza visto che stiamo parlando del recto e del verso di una stessa medaglia- essa sta proprio nel fare in sé, nella sua specificità, che è poi la capacità di consumare un continuo stato di esilio, uno sguardo nutrito dallo spessore di una distanza.

La qualità di ciò che si usa definire con il termine “impegno”, ovvero la capacità dell’arte di graffiare il mondo, necessaria per definizione ma tanto più necessaria in tempi di crisi come questi, passa attraverso una forma di distacco dal mondo. Viene in mente il pensiero di Agamben circa la necessità di una sfasatura, una sorta di anacronismo, come condizione per essere contemporanei, anziché semplicemente attaccati al presente.

In tale prospettiva la marginalità diventa un valore e anche la questione della “solitudine”, o estraneità, rispetto al mercato si trova a riguardare il potenziale euristico del “fallimento” in contrapposizione alla mitologia del successo.

Dunque per srotolare la matassa non ci resta che perderne il bandolo lungo il terreno friabile dei bordi, quel luogo che perimetrando apre, perché non avendo nozione certa del dove e del quando, lì le cose affiorano e scompaiono nella loro indeterminatezza.

A proposito, si dice che tra il corpo inanimato di Robert Walser e le sue impronte ci fosse almeno un metro di neve intonsa.

bordeggiare


bordeggiare v. intr. [der. di bordo] (io bordéggio, ecc.; aus. avere). – 1. Navigare di bolina, per risalire contro la direzione del vento, compiendo una serie di tratti (bordate), col vento ora a diritta e ora a sinistra, seguendo cioè una rotta a zig-zag, il cui asse si trova appunto nella direzione del vento. 2. fig., non com. Destreggiarsi fra ostacoli, fra difficoltà. Anche, sfiorare una questione, un argomento, evitando di affrontarlo: è inutile b., voglio una risposta precisa.

(Vocabolario Treccani)




Imboscarsi

Gino Gianuizzi

BORDI chiama il margine e il margine per me chiama altre letture, Il libro dei margini di Edmond Jabès e Manifesto del Terzo paesaggio di Gilles Clément.

E il mio camminare qui in un territorio che è al margine e che è margine. Bordi. Gilles Clément descrive il margine come spessore. Vivo in questo spessore, margine, limite, bordo - geografico (il crinale che domina la casa segnava un confine) e insieme mentale, luogo in cui è possibile applicare categorie (pensieri, movimenti, tempi) non urbane.

Sono in questo luogo relativamente isolato da più di venti anni. In principio era una scelta originata da un abbandono e insieme fuga da una città che si stava trasformando; in principio era anche l’altra faccia di una vita che attraverso neon regolava il mio confronto col mondo: da una parte quell’intrico di relazioni belle e ricche e intense ma anche formali e obbligate; dall’altra gli alberi intorno, gli animali, l’orto, e giornate di silenzio e di isolamento.

Poi gli imboscati. Ho lanciato un invito agli imboscati, per incontrarsi e per fare consapevole che quella che mette in relazione chi ha scelto di imboscarsi non può che essere una rete a maglie larghe, le forme e i modi dell’imboscarsi non possono essere determinate da una o più regole / ci sono imboscati che vivono appartati, hanno scelto i margini fisici, i luoghi isolati, che siano boschi o pianure o isole o montagne / ma ci sono imboscati che vivono nelle città nelle metropoli e lì si nascondono fra gli altri / ci sono artisti imboscati che hanno scelto di studiare percorrere analizzare il bosco (il bosco sta per tutto il vivente non umano) come ecosistema.

 

Ho incontrato la scrittura di Sylvain Tesson (gli incontri sono casuali e determinanti) e trovo:

«Quei tracciati a forma di stella e quelle linee punteggiate erano sentieri rurali, piste pastorali istituite dal catasto, punti di accesso per i servizi forestali, linee di confine, antiche viae quasi prive di manutenzione. Alcune erano private, molte destinate al passaggio degli animali. Tutta la carta era percorsa da quelle arterie: erano i miei sentieri neri. Fornivano delle vie di fuga; erano luoghi dimenticati dove regnava il silenzio e non si incontrava mai nessuno. A volte i cespugli si richiudevano dopo ogni passaggio. Certi uomini sperano di passare alla Storia; noi preferivamo sparire nella geografia.» (…) «Niente a che vedere con i sentieri degli escursionisti, strade segnalate, disseminate di cartelli, frequente dagli sportivi e dai politici locali che vi andavano a correre. Anche nei pressi di un’area abitata, la carta 1:25.000 offriva delle vie di fuga: un rialzo del terreno, una discesa che si notava appena, un viottolo.» (…) «Negli anni Ottanta uno scrittore provenzale, René Frégni, ha descritto in un romanzo la fuga di un coscritto renitente alla leva che traversa tutta l’Europa con i militari alle calcagna. È un libro che lascia il segno, a cominciare dal titolo: Les chemins noirs.» (…) «Un sogno mi perseguitava. Immaginavo la nascita di un movimento chiamato confraternita dei sentieri neri. Oltre a tracciare una rete di percorsi alternativi, i sentieri neri potevano anche definire i processi mentali che avremmo adottato per sottrarci al nostro tempo: disegnati sulle mappe e serpeggianti sul terreno, si sarebbero prolungati dentro di noi fino a costruire una geografia mentale dell’evitamento.» (…) «Le regole di quella dissimulazione esistenziale si riducevano a pochi imperativi: accogliere con indifferenza le novità sensazionali, sapere con chi prendersela, scegliere le cose per cui indignarsi, quelle da amare e quelle per cui provare disgusto. Passare la vita tra montagne di libri, nei boschi, insieme a tavolate di amici.»

(…) «Eravamo stufi delle parole d’ordine del nostro tempo: Enjoy! Take care! Be safe! Be connected!» (…) «Andare per i sentieri neri e cercare le radure dietro ai rovi era un modo per sfuggire al dispositivo.» (…) «Sebbene cercassi di resistere, le nuove tecnologie invadevano tutti i campi della mia esistenza. Non c’era da farsi illusioni, non erano semplici innovazioni destinate a semplificare la vita; erano sostituti della vita. Non proponevano un’allettante gamma di innovazioni ma modificavano la nostra presenza sulla Terra. Un filosofo italiano, Giorgio Agamben, in un breve pamphlet (Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo? , Roma, Nottetempo, 2006) aveva affermato che era da ingenui crede di poterle usare bene. Esse rimodellavano la psiche umana, agivano sui comportamenti, già dominavano la lingua, iniettavano nel pensiero i loro betabloccanti, vivevano di vita propria. Per l’umanità rappresentavano una rivoluzione importante almeno quanto la nascita, risalente a quattro milioni di anni prima, della neocorteccia. Facevano evolvere la specie? Ci rendevano più liberi e socievoli? La vita era migliore da quando aveva preso a passare attraverso gli schermi? Non era sicuro. Anzi era possibile che stessimo perdendo ogni potere sulle nostre esistenze. Sempre secondo Agamben: stavamo diventando il corpo sociale più docile e imbelle che si sia mai dato nella storia dell’umanità. Andare lungo i sentieri neri significava aprire una breccia in quei bastioni. Non avendo in me né la violenza del sabotatore né il narcisismo dell’agitatore, sceglievo la fuga.»

 

Sylvain Tesson, Sentieri neri, Sellerio editore, 2018

 

Eva Sauer replica alla mia mail: 

«I sentieri neri… un’immagine perfetta.

Infatti: più che imboscati siamo davvero dei Waldläufer, che seguono le strade tracciate dagli animali. Il nostro saggio istinto ci spinge oltre le strade costruite per il passaggio di quelli che non la guardano, la strada, la percorrono e basta.»



La caffettiera di Stalin

Olinsky


 

Nel lontano 1920 durante un lungo soggiorno estivo in Slavonia occidentale, lo scrittore e drammaturgo dilettante Paluonsky, la pittrice di bell’aspetto di icone floreali Irina Paplova, il pittore e compositore di sinfonie di ampio respiro Merediev e il maestro Olinsky convocano il “Primo congresso di arte proto cubistafuturista ironica“. Essi proclamano una nuova arte, dove la leggerezza, l’ironia, ed il piacere del fare artistico siano le fondamenta per una piacevole esistenza dell’artista.

Pur ribadendo l’impegno nella ricerca e l’analisi delle avanguardie, Olinsky evidenzia la prerogativa di un messaggio di un’arte per tutti e per pochi.

Nel 1923, quando ormai Stalin prese il potere in Unione Sovietica, Olinsky per omaggiarlo realizzò il primo dipinto proto futurista comunista La caffettiera di Stalin.

Il despota non gradì l’omaggio del nostro artista in quanto l’opera non rispecchiava esteticamente gli ideali socialisti.

Perseguitato dalla polizia segreta il nostro artista fuggì a Parigi con la sua giovane amante e allieva Raisa.



Collage e anamorfosi

Cesare Biratoni

Dalla Treccani online  ho ricavato questa definizione della parola “anamorfosi”, “un tipo di rappresentazione pittorica realizzata secondo una deformazione prospettica che ne consente la giusta visione da un unico punto di vista (risultando invece deformata e incomprensibile se osservata da altre posizioni).”

 

Qui ci si riferisce alla deformazione dell’immagine del dipinto, che per essere compresa richiedeva una visione tramite specchi deformanti, oppure una forte inclinazione del piano della visione (come nel dipinto degli ambasciatori di Holbein conservato alla National Gallery). Si tratta chiaramente del significante, ma si può parlare anche di anamorfosi del significato? 

 

Se pensiamo alla tecnica del collage, possiamo immaginare che l’inclinazione del dipinto oppure l’uso di lenti o specchi si trasformi in posizione sul piano, in quantità o meno del ritaglio, in nuove modalità di visione sulla base della collocazione o dell’accostamento con altro ritaglio?

Ogni frammento mantiene una sua autonomia; resta il riferimento ad aree semantiche precise nonostante la nuova posizione assunta. Ma è l’insieme degli elementi che potremmo definire come “anamorfosi”; perché è l’inclinazione che si trasforma in disposizione a definire l’immagine da guardare, ed è la composizione, benché precaria, a divenire lo strumento ottico con cui recepire un nuovo ed inedito significato dell’insieme. 

 

Dall’anamorfosi credo si possa anche desumere un senso di precarietà della visione, ed è forse l’elemento che le conferisce quell’inquietudine che pittori come Holbein volevano suggerire. Il tempo della comprensione dell’immagine è vincolato dalla possibilità o meno di mantenere le singole parti secondo quella disposizione, e non un’altra. E’ possibile che, per capire meglio, lo sguardo debba piegarsi, o sia necessario torcere il collo, socchiudere gli occhi, chiederne uno per evitare la visione bioculare. In alcuni casi i ritagli mantengono la loro fisicità, proiettando strane ombre sul piano, in altri è necessario comprimere tutto sotto un vetro (come fosse una lente?) per aumentare il senso di connessione tra gli elementi. E come nell’anamorfosi l’immagine distorta è la più semplice da mantenere perché richiede meno sforzo interpretativo (ma anche fisico), così anche nel collage i singoli elementi non perdono il forte richiamo alla loro origine, conferendo al tutto un senso dì lotta e conflitto che aumenta la sua incertezza temporale e ne determina la precarietà. 

 

L’ambiguità è il terreno comune, il luogo naturale di anamorfosi e collage; mantenendo i piedi, per così dire, in aree semantiche distinte, essi riescono ad essere una cosa e l’altra senza contraddizione, realizzandosi nell’ indeterminatezza, nell’irriducibile volontà di non essere mai del tutto una sola cosa.



The Hermit in the Garden

Pantani e Surace


The Hermit in the Garden, 2023, xilografia su MD stampata su carta bianca Fabriano Accademia 160 gr.


Ricognizione

Fabio Sandri

Una trave nell'occhio, è il prolungamento della macchina fotografica, indica e determina il punto di vista vincolato dal suo ingombro e dal suo peso materiale che vede lo spazio con angolature sorprendenti. Il peso della trave è il corpo di questo cono ottico che ci collega con lo sguardo di chi lo agisce.

 


Ricognizione, 2023,  macchina fotografica, trave, fotografie.


La fine dei numeri

Roberto Limonta

Sono diverse le fonti che concordano nel riportare come le pagine mancanti del codice Latinus Vaticanus 1970, scomparse durante i tumulti del 1848, custodissero una storia che raccontava di quando i numeri finirono. Il testo rimasto è confuso e lacunoso, ricostruito qual è per frammenti, voci, ipotesi e testimonianze apocrife.

 

Il passato fu il tempo di una numerologia sontuosa e lussureggiante. Numeri raffinati, sottili e minuziosi come merletti (il ventisette, il cinque, alcune varianti del novantuno); o straripanti di esuberanza barocca, come il cinquecentottantanove o l’ottantacinque. Cattolici e untuosi, come l’otto e il dodici; frizzanti, come il trecentotrentasette; veloci e predatori, come il tre o il quindici o anche il quarantanove (ma su quest’ultimo il giudizio non è concorde). Alcuni sono a tal punto celebri (e celebrati) che ripeterli è in realtà un puro esercizio di ecolalia: la tetraktys pitagorica, la triade (altrettanto pitagorica) tre-quattro-cinque, lo zero, il numero di Avogadro, l’ultimo teorema di Fermat. Ma anche l'Uno platonico e plotiniano; il dodici, numero degli apostoli e dei mesi; il quattro (gli evangelisti, i cavalieri dell'Apocalisse, i punti cardinali, gli elementi fondamentali della filosofia naturale dei greci), il sette e il settanta volte sette (detto e scritto così, puri addendi senza risultato).

 

Altri numeri, detti infiniti, ostentano il fascino rétro di una femme fatale, una dama del lago che scruti il mondo dietro i veli del proprio cappello.

Formule, equazioni, algoritmi, calcoli differenziali: i numeri nascevano così, con naturale abbondanza e cadenza quasi quotidiana. Gemevano i torchi a stampare pagine e pagine di cifre, e i dotti trepidavano in attesa delle ultime novità come un attore aspetta febbrile, dopo la prima teatrale, l'uscita delle recensioni. Con l'avvento dell'ultimo secolo tutto cominciò a cambiare. Dapprima quasi impercettibilmente – ma parlarne, oggi, è già un atto d’accusa verso passate negligenze – e poi in modi sempre più aperti e sfacciati. Numeri dozzinali, blandi e grossolani, alcuni volutamente (provocatoriamente) appena sbozzati, ruvidi al tatto e sgradevoli ad ogni senso, epigoni di un fardello la cui esecuzione cadeva in una crescente indifferenza; una banalità dilagante e un disamore che tracimava ormai al di là delle buone maniere. Insomma, non ci si credeva più, o forse era diventato di moda il cinismo numerico, quando non il disprezzo. Si cominciarono ad alzare voci sussiegose: qualcuno azzardò – da principio cautamente – che mutatis mutandis e con tutto il rispetto, in definitiva, a esser franchi e a dirla tutta, occorreva prendere atto che questi numeri avevano un pochino (si disse proprio così, "pochino") stancato. La levata di scudi dei nostalgici apparve stanca e tardiva. Quando l'idea fu ripresa, come era fatale avvenisse, all'indignazione d'ufficio subentrò la polemica, il dibattito accigliato e i distinguo, i quali tuttavia significavano tacitamente la possibilità che sì, forse si poteva, e magari si doveva,, anzi certamente e urgentemente occorreva fare a meno dei numeri, tanto più se i numeri – e lo sguardo si allargava a destra e sinistra, con un gesto come a includere quella che si intuiva essere una pletora di oggetti insignificanti e di cui ormai si stentava a comprendere il senso –  erano questi. Seguiva un sospiro, a sigillare la coscienza sporca con un simulacro di rimpianto che era ormai, in realtà, una profanazione a cielo aperto.

 

I primi a cadere (nomen omen) furono i numeri primi, vittime di un rancore covato a lungo sotto la cenere. Gli ultimi furono i numeri della fede e della superstizione, le cabalistiche aritmetiche della simbologia popolare. Caddero uno dopo l'altro, con tonfi regolari: il tredici, il diciassette, il sette, alla fine persino il tre, nonostante la feroce opposizione dei cattolici. Quanto ai numeri periodici, a quelli irrazionali e alle frazioni, non ci fu neppure bisogno di sopprimerli: scivolarono naturalmente nell’oblio, come foglie morte. Qualcuno sopravvisse più a lungo, in alcune pieghe nascoste dell’alfabeto, ma furono salvezze effimere.

L'ultimo numero vide la luce, stancamente, in un giorno d’aprile che il testo descrive come freddissimo. Ormai nessuno ci credeva più, ed è inutile dire (ma forse utile scrivere) che fu accolto, come si suol dire, da un assordante silenzio. Da allora ci si acconciò a soluzioni di compromesso, per dilazionare l'inevitabile, forse per un rigurgito di pietà o di cattiva coscienza. Non ci furono più numeri nuovi, ma solo riproduzioni: copie, multipli o sottomultipli, in qualche caso imitazioni e anche contraffazioni (continuavano ad esserci appassionati numerofili e, come sempre, collezionisti, commoventi sacerdoti di un dio scomparso); a volte restauri e ammodernamenti, nella speranza che cucinarli con qualche spezia li rendesse più appetibili, in vista di tempi migliori.

 

L'ultimo numero fu un multiplo dispari di 697, di cui non ricordo esattamente la cifra. Anche la memoria numerica ci sta lasciando.



Piedistallo

Gianluca Codeghini


Piedistallo, 1991, stampa digitale su carta cotone 40x60 cm + cornice


Il bordo di un quadro è l'artista

Eugenia Vanni

I bordi dei quadri sono luoghi dove la pittura si perde o svanisce, dove rimangono piccoli tocchi imprecisi di una qualche tonalità utilizzata dentro la pittura, o sotto di essa, ma non più visibile in purezza.

Nei bordi lasciati liberi dalla cornice si possono intravedere gli strati di preparazione, le eventuali imprimiture colorate, alcuni ripensamenti, gli schizzi di colore non voluti o le impronte delle dita.

Con una serie di indizi, il bordo ci può riportare allo stadio primordiale di un quadro, al suo essere materiale lavorato prima che dipinto.

Eppure esistono tanti modi di trattare un bordo, perché il bordo della tela può essere la prosecuzione di un pensiero, uno spazio in cui la scelta dell’artista diventa fondamentale per definire aspetti legati alla percezione dell’opera.

A seconda di come un artista tratta il bordo si intravede il modo di pensare la pittura nello spazio e si percepiscono alcune intenzioni che riguardano il fronte.

Un bordo può essere lasciato bianco, può essere macchiato, oppure può essere resa visibile la tela da pittura grezza di lino o cotone.

In passato il bordo era considerato del tutto un “fuori opera”: la pittura vera finiva, dove il bordo iniziava.

I quadri erano dipinti per essere incastonati all’interno di importanti cornicioni di stucco dentro le chiese oppure per essere delimitati da eleganti cornici dorate, spesso opere di altissimo artigianato. Il bordo era una zona sempre da nascondere proprio perché, mostrando il procedimento tecnico-pittorico, distraeva l’occhio rispetto all’immagine rappresentata sul fronte.

Oltre a questo, credo vi fosse anche una forma di pudore nel nascondere il bordo; come se rivelasse dettagli intimi, quotidiani e segreti di una regina.

Via via con il tempo, in un gioco che sembra molto simile ai cambiamenti dei costumi nella società, quel pudore, quella vergogna si è trasformata in una morbosa curiosità e oggi (come ormai da molto tempo) il bordo può essere nudo.

Così, è frequente sorprendere qualche visitatore ad osservare il bordo dei quadri per scorgere i piccoli ripensamenti dell’artista o dettagli che riguardano il fare, il momento in cui il quadro viene dipinto.

Se ci soffermiamo ad osservare il bordo di un quadro vuol dire che stiamo cercando l’artista, non l’opera, perché il bordo di solito non si dipinge, casomai si spennella o si isola o si vernicia.

Penso invece che dipingere sul bordo sia come camminare in equilibrio sopra uno stretto e altissimo muro. Ma qui l’artista dov’è? 

Autoritratto come regina, 2013, cornice modanata con il profilo dell'artista che indossa una corona dorata, legno laccato nero preparato a gesso di Bologna, bolo e foglia d'oro zecchino, 120 x 70 cm



I pittori e l'algoritmo

Come una mostra sulla pittura diventa una mostra contro la pittura. Note su Pittura italiana oggi, Triennale, Milano.

Ermanno cristini

Ho molti amici pittori di cui stimo senza riserve il lavoro e in linea di principio non ho proprio nulla contro l’atto del depositare del pigmento su una superficie, per cui nessun pregiudizio da parte mia, eppure considero la grande mostra sulla pittura italiana alla Triennale di Milano una mostra brutta, inutile, profondamente reazionaria, antitetica ai propositi dichiarati, quelli di valorizzare la ricerca pittorica italiana.

Il problema non sono le singole opere, alcune di grande qualità, il problema è l’insieme. Non bastano le opere per fare una mostra, la mostra è un organismo nutrito dalla relazione tra le opere e tra le opere e lo spazio. Almeno da quando il pensiero scientifico ci ha indicato la consapevolezza del fatto che non esistono più le cose ma la relazione tra le cose la nozione stessa di opera d’arte è profondamente mutata e non può più considerarsi un oggetto chiuso in sé stesso. Peraltro un centinaio d’anni di storia dell’arte si sono svolti proprio intorno a questi temi. “sont les regardeurs qui font les tableaux” notava già Marcel Duchamp.

Nella mostra milanese Il problema è l’insieme, il problema sono l’dea, l’approccio critico e il disegno curatoriale perché si tratta di una mostra senza idea, senza approccio critico e senza disegno curatoriale, inerzialmente ancorata a una visione passatista dell’opera.

 

La premessa secondo cui la pittura in Italia è vittima di ostracismo non è un’idea ma un luogo comune. Basta fare un giro tra le gallerie o le fiere: almeno in termini quantitativi la pittura è viva e vegeta e con un ruolo di protagonismo, forse anche perché il mercato comunque ne ha bisogno. L’intenzione del curatore di dare fiato a Cenerentola di conseguenza ha i piedi d’argilla e il suo cammino finisce prima ancora di cominciare.

Ma ammesso e non concesso che Cenerentola esista per davvero qual è la sua fisionomia secondo il curatore? Non c’è risposta salvo l’adesione generica ai canoni più scontati. Questo è il primo nodo della questione.

 

Diventa sempre più difficile oggi considerare la pittura e i pittori come una categoria a parte, una specificazione ben delimitata del fare artistico, una sorta di riserva indiana. Inutile ricordare che è dagli inizi del secolo scorso che lo specifico pittorico è sottoposto a profondi movimenti tellurici i quali ne hanno prodotto una progressiva dilatazione verso lo spazio, verso gli oggetti, verso gli altri media e gli altri linguaggi. Identificare oggi la nozione di pittura con il “quadro su tela” è quantomeno anacronistico, e non nel senso nobile del termine.

Particolarmente oggi, e direi più o meno a partire da una trentina di anni fa, facendo tesoro della ormai più che matura lezione novecentesca vi è tra gli artisti un atteggiamento disincantato per cui il dipingere è una pratica da non considerarsi necessariamente esclusiva. Molti artisti passano con estrema levità da un quadro a una foto a una performance a un’installazione, ecc. assecondando con libertà un attraversamento continuo dei linguaggi. Una sorta di infedeltà euristica che tra l’altro taglia netto con la nozione sedimentata di stile. Anche quando per inclinazione personale l’attenzione si concentra prevalentemente su un mezzo è ormai assodata la consapevolezza che non si tratta de il mezzo bensì di un mezzo tra i mezzi.

Una mostra sulla pittura dunque non può prescindere da tale disincanto, soprattutto se vuol essere in un presente assoluto. Se c’è vitalità della pittura (e sicuramente c’è) essa sta nella frizione con gli altri linguaggi, lungo la linea di una frontiera in cui si confrontano mescolandosi, dividendosi, sovrapponendosi, cancellandosi vicendevolmente le modalità dell’arte.

Pensare una mostra sulla pittura oggi significa necessariamente camminare su un terreno friabile poiché non si può considerare la pittura astraendola dalle sue relazioni, più o meno pericolose che siano. Se non si ha il coraggio di affrontare la friabilità del terreno si torna inevitabilmente indietro.

 

La seconda questione riguarda l’approccio critico e il disegno curatoriale. Il curatore in catalogo parla di una mostra costruita nel tempo attraverso una frequentazione della pittura e dei pittori, talvolta dettata dal caso e/o dalla curiosità. Una visione ovviamente parziale che avrebbe fatto preferire un titolo meno ambizioso del tipo “La mia pittura italiana oggi” e il coraggio di una conseguente operazione di sintesi. È vero che qualsiasi azione curatoriale è una visione parziale, ma in assenza di un’ipotesi critica -e cioè per esempio il tratteggiare argomentandole delle direzioni della ricerca, dei temi, delle attitudini, ecc.-  la parzialità è ancora più parziale e se la pura soggettività non è dichiarata tutto diventa arbitrario, gratuito, inconsistente.

Il tempo lungo e l’incedere lento e senza programma della gestazione (secondo quanto dichiara il curatore) potrebbero far pensare alla passeggiata walseriana; ma nella passeggiata walseriana ci si stupisce degli incontri mentre in questa mostra lo stupore è Il grande assente.

A decretarne la morte è la vocazione elencativa, propria di una dimensione quantitativa e non qualitativa: tanti autori, un autore dopo l’altro, ad ogni autore un pannello e una pagina in catalogo, salvo qualche eccezione. Un tutto noiosissimo e scontatissimo come un vecchio elenco telefonico. L’allestimento del pur bravissimo Italo Rota rinuncia alla sfida con lo spazio difficile della Triennale e probabilmente non poteva essere diversamente in presenza di un disegno curatoriale anonimo, appunto elencativo, tradito anche dall’abbondanza numerica degli artisti invitati, ben 120!

La mediocrità del progetto trova poi piena corrispondenza nelle schede che accompagnano le singole opere e contenute in catalogo, compilate con la scrittura banale di uno scolaretto svogliato. L’Umberto Eco di “Come presentare un catalogo d’arte” de Il secondo diario minimo docet.

Il curatore parla di mappatura, però la mappa implica delle scelte, un disegno, una visione. Una mappa è una forma ed è cosa ben distinta dall’elenco o dalla lista; la mostra milanese è una lista degli incontri del curatore senza aspirare alla dignità di forma. A dominare è una logica additiva piuttosto che selettiva, quella stessa logica soggiacente allo scroll di Instagram.

Dina Kelberman qualche anno fa con I’m Google ha costruito un lavoro capace di restituire una lettura puntuale dei funzionamenti dell’algoritmo; se io inserissi le parole chiave “pittura”, “quadro”, in un motore di ricerca otterrei una lista più o meno simile a questa mostra.

La questione è che l’algoritmo è l’esatto opposto della pittura. Eugenia Vanni in un bell’articolo comparso su Artribune mette in guardia dall’equivoco secondo il quale si confonde la pittura con l’immagine della pittura. Sostiene la Vanni che attualmente una condizione di sovrapproduzione pittorica troverebbe essenzialmente ragione nel suo sharing sotto forma di immagine; in realtà la dimensione della pittura si qualifica invece per una durata la quale è antitetica allo sguardo fugace dello scroll.

La pittura quando diventa immagine della pittura è pittura decorporizzata. “Il processore conta solo”, ci insegna Byung-Chul Han, “l’obbligo di trasparenza cancella l’odore delle cose, l’odore del tempo, la trasparenza non odora”.

 

In questa mostra il curatore “conta solo”, come il processore, e la mostra non odora se non di stantio, in modo direttamente proporzionale alla sua “instagrammabilità”. L’esito è una mostra contro la pittura perché la trasforma in immagine e contribuisce al soffocamento della sua dimensione propria -che è poi la dimensione dell’arte- quella dell’opacità e del silenzio annullate nel rumore piatto e continuo: il buzz dell’infosfera.

Un buzz in cui galleggiano i luoghi comuni più scontati relativamente all’arte e alla sua esposizione. I tratti di un’operazione reazionaria appunto, nei fatti armonica con il clima di “ritorno all’ordine” proprio dei malatempora in cui siamo proiettati.

A poco vale la premura di avvertirci che i pannelli usati per l’allestimento sono materiale di riuso per una mostra “ecosostenibile” nello spirito di un ormai insopportabile, e un pò fighetto, “politically correct”, perché dato il contesto non si va al di là di una vulgata falsamente, e purtroppo solo falsamente, progressista, dispiegata a celare nel fumo una sostanziale mancanza di idee.



Insegne e vecchie signore

Roberto Pugina

Strade diverse, città diverse, nazioni e continenti diversi, secoli ed anni diversi, modalità tecniche-espressive- contenutistiche diverse, eppure “L’insegna di Gersaint”, di Watteau e “The Street” di Oldemburg hanno un fascino che le accomuna: probabilmente è una fascinazione sotto traccia, magari è tirata per i capelli, magari solo nella mia testa.

 

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Sui bordi

Beatrice Meoni


Sui bordi, 2023, olio su tavola e creta, 71x53


Ai cari amici di BORDI

Stefano Peroli

Ho visto la Schlein ( o era la Weil?), prendere appunti, annotare, in un sogno indicibile. Nello spazio infinito del mio vicolo cieco ho sognato tutto. Posso dire di essere già morto, ma fra morti mai morti, coraggiosi e vicinissimi. Nessun bordo, nessun confine, anche se non c’ero, io c’ero.

Cari Ermanno, Cesare e Luca quando staccai la spina dal sistema dell’arte, era il 1998, un meraviglioso fallimento mi tenne in vita. Ora, mi dicevo, vivi senza data, nel tuo tempo vuoto ed incognito, senza rispondere a nessuna violenza, aggressione, sconosciuto fra gli sconosciuti, tutti su una barca immensa. Mi si aprì un mare largo “per navigare più oltre”. I miei più piccoli vermi si fecero visibili. “Vieni a vedere la mia poesia” mi disse la poetessa, il suo nome era Amelia: un ulteriore sogno aperto, spazioso.  Che pace albergare nella propria mente, non mostrarsi più!

Cari amici, nello spazio, nudi, ci proteggiamo con le nostre sole parole, la vera pioggia su questa terra; nudi come fantasmi giriamo su questo caro, accogliente piano gassoso, un vero rifugio. “La vita è un pozzo vuoto e va rispettato il suo vuoto” dice la poetessa. Un pittore, un artista, non dovrebbe più vedere i propri quadri appiccicati alle pareti, ma dovrebbe vederli solo nello straordinario vuoto della propria mente, dove la terra finisce, nello spazio più profondo, oltre i mercati, nella penombra del fare. Niente bordi, ma solo un grande vuoto. Disfare ogni bordura, ampliarsi, salvarsi, tuffarsi nel vuoto, tutti sospesi, uniti a quel lembo a cui accenna Cesare; un lembo come quelli, a me cari, di stoffa, forse brandelli di calzini, che Luca fa rinascere fra le sue dita. Di lembo in lembo, per sempre.

Caro Ermanno, mi chiedi come sto; sto bene, stiamo tutti benissimo, con le nostre sole parole a sostenerci. Niente bordi, cari amici, e allunghiamo il passo davanti al grande vuoto. Anche se prima o poi non ci sarò, io ci sarò. Anche se prima o poi non ci saremo, noi ci saremo. Dunque, continuare il viaggio con il giusto passo, i giusti trapassi che non separano niente da niente. Non ci siamo mai mossi da qui, un po’ alla luce un po’ al buio e senza bordi. Via la data, via anche la firma e ci saremo tutti. Questa è gioia, questa è la grazia.

C’era anche Otla nel sogno, dipinta, mi sorrideva.