Il bordo di un quadro è l'artista

Eugenia Vanni

N° 28, novembre 2023

 

I bordi dei quadri sono luoghi dove la pittura si perde o svanisce, dove rimangono piccoli tocchi imprecisi di una qualche tonalità utilizzata dentro la pittura, o sotto di essa, ma non più visibile in purezza.

Nei bordi lasciati liberi dalla cornice si possono intravedere gli strati di preparazione, le eventuali imprimiture colorate, alcuni ripensamenti, gli schizzi di colore non voluti o le impronte delle dita.

Con una serie di indizi, il bordo ci può riportare allo stadio primordiale di un quadro, al suo essere materiale lavorato prima che dipinto.

Eppure esistono tanti modi di trattare un bordo, perché il bordo della tela può essere la prosecuzione di un pensiero, uno spazio in cui la scelta dell’artista diventa fondamentale per definire aspetti legati alla percezione dell’opera.

A seconda di come un artista tratta il bordo si intravede il modo di pensare la pittura nello spazio e si percepiscono alcune intenzioni che riguardano il fronte.

Un bordo può essere lasciato bianco, può essere macchiato, oppure può essere resa visibile la tela da pittura grezza di lino o cotone.

In passato il bordo era considerato del tutto un “fuori opera”: la pittura vera finiva, dove il bordo iniziava.

I quadri erano dipinti per essere incastonati all’interno di importanti cornicioni di stucco dentro le chiese oppure per essere delimitati da eleganti cornici dorate, spesso opere di altissimo artigianato. Il bordo era una zona sempre da nascondere proprio perché, mostrando il procedimento tecnico-pittorico, distraeva l’occhio rispetto all’immagine rappresentata sul fronte.

Oltre a questo, credo vi fosse anche una forma di pudore nel nascondere il bordo; come se rivelasse dettagli intimi, quotidiani e segreti di una regina.

Via via con il tempo, in un gioco che sembra molto simile ai cambiamenti dei costumi nella società, quel pudore, quella vergogna si è trasformata in una morbosa curiosità e oggi (come ormai da molto tempo) il bordo può essere nudo.

Così, è frequente sorprendere qualche visitatore ad osservare il bordo dei quadri per scorgere i piccoli ripensamenti dell’artista o dettagli che riguardano il fare, il momento in cui il quadro viene dipinto.

Se ci soffermiamo ad osservare il bordo di un quadro vuol dire che stiamo cercando l’artista, non l’opera, perché il bordo di solito non si dipinge, casomai si spennella o si isola o si vernicia.

Penso invece che dipingere sul bordo sia come camminare in equilibrio sopra uno stretto e altissimo muro. Ma qui l’artista dov’è? 

Autoritratto come regina, 2013, cornice modanata con il profilo dell'artista che indossa una corona dorata, legno laccato nero preparato a gesso di Bologna, bolo e foglia d'oro zecchino,

120 x 70 cm

 


I pittori e l'algoritmo

Come una mostra sulla pittura diventa una mostra contro la pittura. Note su Pittura italiana oggi, Triennale, Milano.

Ermanno Cristini

N° 28, novembre 2023

 

Ho molti amici pittori di cui stimo senza riserve il lavoro e in linea di principio non ho proprio nulla contro l’atto del depositare del pigmento su una superficie, per cui nessun pregiudizio da parte mia, eppure considero la grande mostra sulla pittura italiana alla Triennale di Milano una mostra brutta, inutile, profondamente reazionaria, antitetica ai propositi dichiarati, quelli di valorizzare la ricerca pittorica italiana.

Il problema non sono le singole opere, alcune di grande qualità, il problema è l’insieme. Non bastano le opere per fare una mostra, la mostra è un organismo nutrito dalla relazione tra le opere e tra le opere e lo spazio. Almeno da quando il pensiero scientifico ci ha indicato la consapevolezza del fatto che non esistono più le cose ma la relazione tra le cose la nozione stessa di opera d’arte è profondamente mutata e non può più considerarsi un oggetto chiuso in sé stesso. Peraltro un centinaio d’anni di storia dell’arte si sono svolti proprio intorno a questi temi. “sont les regardeurs qui font les tableaux” notava già Marcel Duchamp.

Nella mostra milanese Il problema è l’insieme, il problema sono l’dea, l’approccio critico e il disegno curatoriale perché si tratta di una mostra senza idea, senza approccio critico e senza disegno curatoriale, inerzialmente ancorata a una visione passatista dell’opera.

 

La premessa secondo cui la pittura in Italia è vittima di ostracismo non è un’idea ma un luogo comune. Basta fare un giro tra le gallerie o le fiere: almeno in termini quantitativi la pittura è viva e vegeta e con un ruolo di protagonismo, forse anche perché il mercato comunque ne ha bisogno. L’intenzione del curatore di dare fiato a Cenerentola di conseguenza ha i piedi d’argilla e il suo cammino finisce prima ancora di cominciare.

Ma ammesso e non concesso che Cenerentola esista per davvero qual è la sua fisionomia secondo il curatore? Non c’è risposta salvo l’adesione generica ai canoni più scontati. Questo è il primo nodo della questione.

 

Diventa sempre più difficile oggi considerare la pittura e i pittori come una categoria a parte, una specificazione ben delimitata del fare artistico, una sorta di riserva indiana. Inutile ricordare che è dagli inizi del secolo scorso che lo specifico pittorico è sottoposto a profondi movimenti tellurici i quali ne hanno prodotto una progressiva dilatazione verso lo spazio, verso gli oggetti, verso gli altri media e gli altri linguaggi. Identificare oggi la nozione di pittura con il “quadro su tela” è quantomeno anacronistico, e non nel senso nobile del termine.

Particolarmente oggi, e direi più o meno a partire da una trentina di anni fa, facendo tesoro della ormai più che matura lezione novecentesca vi è tra gli artisti un atteggiamento disincantato per cui il dipingere è una pratica da non considerarsi necessariamente esclusiva. Molti artisti passano con estrema levità da un quadro a una foto a una performance a un’installazione, ecc. assecondando con libertà un attraversamento continuo dei linguaggi. Una sorta di infedeltà euristica che tra l’altro taglia netto con la nozione sedimentata di stile. Anche quando per inclinazione personale l’attenzione si concentra prevalentemente su un mezzo è ormai assodata la consapevolezza che non si tratta de il mezzo bensì di un mezzo tra i mezzi.

Una mostra sulla pittura dunque non può prescindere da tale disincanto, soprattutto se vuol essere in un presente assoluto. Se c’è vitalità della pittura (e sicuramente c’è) essa sta nella frizione con gli altri linguaggi, lungo la linea di una frontiera in cui si confrontano mescolandosi, dividendosi, sovrapponendosi, cancellandosi vicendevolmente le modalità dell’arte.

Pensare una mostra sulla pittura oggi significa necessariamente camminare su un terreno friabile poiché non si può considerare la pittura astraendola dalle sue relazioni, più o meno pericolose che siano. Se non si ha il coraggio di affrontare la friabilità del terreno si torna inevitabilmente indietro.

 

La seconda questione riguarda l’approccio critico e il disegno curatoriale. Il curatore in catalogo parla di una mostra costruita nel tempo attraverso una frequentazione della pittura e dei pittori, talvolta dettata dal caso e/o dalla curiosità. Una visione ovviamente parziale che avrebbe fatto preferire un titolo meno ambizioso del tipo “La mia pittura italiana oggi” e il coraggio di una conseguente operazione di sintesi. È vero che qualsiasi azione curatoriale è una visione parziale, ma in assenza di un’ipotesi critica -e cioè per esempio il tratteggiare argomentandole delle direzioni della ricerca, dei temi, delle attitudini, ecc.-  la parzialità è ancora più parziale e se la pura soggettività non è dichiarata tutto diventa arbitrario, gratuito, inconsistente.

Il tempo lungo e l’incedere lento e senza programma della gestazione (secondo quanto dichiara il curatore) potrebbero far pensare alla passeggiata walseriana; ma nella passeggiata walseriana ci si stupisce degli incontri mentre in questa mostra lo stupore è Il grande assente.

A decretarne la morte è la vocazione elencativa, propria di una dimensione quantitativa e non qualitativa: tanti autori, un autore dopo l’altro, ad ogni autore un pannello e una pagina in catalogo, salvo qualche eccezione. Un tutto noiosissimo e scontatissimo come un vecchio elenco telefonico. L’allestimento del pur bravissimo Italo Rota rinuncia alla sfida con lo spazio difficile della Triennale e probabilmente non poteva essere diversamente in presenza di un disegno curatoriale anonimo, appunto elencativo, tradito anche dall’abbondanza numerica degli artisti invitati, ben 120!

La mediocrità del progetto trova poi piena corrispondenza nelle schede che accompagnano le singole opere e contenute in catalogo, compilate con la scrittura banale di uno scolaretto svogliato. L’Umberto Eco di “Come presentare un catalogo d’arte” de Il secondo diario minimo docet.

Il curatore parla di mappatura, però la mappa implica delle scelte, un disegno, una visione. Una mappa è una forma ed è cosa ben distinta dall’elenco o dalla lista; la mostra milanese è una lista degli incontri del curatore senza aspirare alla dignità di forma. A dominare è una logica additiva piuttosto che selettiva, quella stessa logica soggiacente allo scroll di Instagram.

Dina Kelberman qualche anno fa con I’m Google ha costruito un lavoro capace di restituire una lettura puntuale dei funzionamenti dell’algoritmo; se io inserissi le parole chiave “pittura”, “quadro”, in un motore di ricerca otterrei una lista più o meno simile a questa mostra.

La questione è che l’algoritmo è l’esatto opposto della pittura. Eugenia Vanni in un bell’articolo comparso su Artribune mette in guardia dall’equivoco secondo il quale si confonde la pittura con l’immagine della pittura. Sostiene la Vanni che attualmente una condizione di sovrapproduzione pittorica troverebbe essenzialmente ragione nel suo sharing sotto forma di immagine; in realtà la dimensione della pittura si qualifica invece per una durata la quale è antitetica allo sguardo fugace dello scroll.

La pittura quando diventa immagine della pittura è pittura decorporizzata. “Il processore conta solo”, ci insegna Byung-Chul Han, “l’obbligo di trasparenza cancella l’odore delle cose, l’odore del tempo, la trasparenza non odora”.

 

In questa mostra il curatore “conta solo”, come il processore, e la mostra non odora se non di stantio, in modo direttamente proporzionale alla sua “instagrammabilità”. L’esito è una mostra contro la pittura perché la trasforma in immagine e contribuisce al soffocamento della sua dimensione propria -che è poi la dimensione dell’arte- quella dell’opacità e del silenzio annullate nel rumore piatto e continuo: il buzz dell’infosfera.

Un buzz in cui galleggiano i luoghi comuni più scontati relativamente all’arte e alla sua esposizione. I tratti di un’operazione reazionaria appunto, nei fatti armonica con il clima di “ritorno all’ordine” proprio dei malatempora in cui siamo proiettati.

A poco vale la premura di avvertirci che i pannelli usati per l’allestimento sono materiale di riuso per una mostra “ecosostenibile” nello spirito di un ormai insopportabile, e un pò fighetto, “politically correct”, perché dato il contesto non si va al di là di una vulgata falsamente, e purtroppo solo falsamente, progressista, dispiegata a celare nel fumo una sostanziale mancanza di idee.

 


Insegne e vecchie signore

Roberto Pugina

N° 27, settembre 2023

 

Strade diverse, città diverse, nazioni e continenti diversi, secoli ed anni diversi, modalità tecniche-espressive- contenutistiche diverse, eppure “L’insegna di Gersaint”, di Watteau e “The Street” di Oldemburg hanno un fascino che le accomuna: probabilmente è una fascinazione sotto traccia, magari è tirata per i capelli, magari solo nella mia testa.

 

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Sui bordi

Beatrice Meoni

N° 27, settembre 2023

 

Sui bordi, 2023, olio su tavola e creta, 71x53


Ai cari amici di BORDI

Stefano Peroli

N° 27, settembre 2023

 

Ho visto la Schlein ( o era la Weil?), prendere appunti, annotare, in un sogno indicibile. Nello spazio infinito del mio vicolo cieco ho sognato tutto. Posso dire di essere già morto, ma fra morti mai morti, coraggiosi e vicinissimi. Nessun bordo, nessun confine, anche se non c’ero, io c’ero.

Cari Ermanno, Cesare e Luca quando staccai la spina dal sistema dell’arte, era il 1998, un meraviglioso fallimento mi tenne in vita. Ora, mi dicevo, vivi senza data, nel tuo tempo vuoto ed incognito, senza rispondere a nessuna violenza, aggressione, sconosciuto fra gli sconosciuti, tutti su una barca immensa. Mi si aprì un mare largo “per navigare più oltre”. I miei più piccoli vermi si fecero visibili. “Vieni a vedere la mia poesia” mi disse la poetessa, il suo nome era Amelia: un ulteriore sogno aperto, spazioso.  Che pace albergare nella propria mente, non mostrarsi più!

Cari amici, nello spazio, nudi, ci proteggiamo con le nostre sole parole, la vera pioggia su questa terra; nudi come fantasmi giriamo su questo caro, accogliente piano gassoso, un vero rifugio. “La vita è un pozzo vuoto e va rispettato il suo vuoto” dice la poetessa. Un pittore, un artista, non dovrebbe più vedere i propri quadri appiccicati alle pareti, ma dovrebbe vederli solo nello straordinario vuoto della propria mente, dove la terra finisce, nello spazio più profondo, oltre i mercati, nella penombra del fare. Niente bordi, ma solo un grande vuoto. Disfare ogni bordura, ampliarsi, salvarsi, tuffarsi nel vuoto, tutti sospesi, uniti a quel lembo a cui accenna Cesare; un lembo come quelli, a me cari, di stoffa, forse brandelli di calzini, che Luca fa rinascere fra le sue dita. Di lembo in lembo, per sempre.

Caro Ermanno, mi chiedi come sto; sto bene, stiamo tutti benissimo, con le nostre sole parole a sostenerci. Niente bordi, cari amici, e allunghiamo il passo davanti al grande vuoto. Anche se prima o poi non ci sarò, io ci sarò. Anche se prima o poi non ci saremo, noi ci saremo. Dunque, continuare il viaggio con il giusto passo, i giusti trapassi che non separano niente da niente. Non ci siamo mai mossi da qui, un po’ alla luce un po’ al buio e senza bordi. Via la data, via anche la firma e ci saremo tutti. Questa è gioia, questa è la grazia.

C’era anche Otla nel sogno, dipinta, mi sorrideva.