Marco Salvetti
N° 31, maggio 2024
Cara mamma,
aveste ragione, non ci può essere una teoria dell'arte senza una teoria della vita.
Eppure non è possibile una teoria della vita
perché la vita è il no sopra ogni verità.
Mamma, io non voglio morire ma devo morire.
Cara mamma,
diceste bene, fintanto che non vivremo
la nostra arte mai svolazzerà come i rondinini nel sereno.
“Un vero esperto della banalità / ha da essere quest'artista
affinché ami / come una bestia”
Questo scrisse il babbo dal fronte, dopo mesi di silenzio.
“Il resto son solo carrieristi di professione
monogami dell'arte
chierici del pennello comari di paese
imboscati sottoni
toglietevi le mutande
mostrateci i vostri schifi
impazzite la bestemmia
dio merda
nel nome di un'ammore troglodita
di un'utopia secolare
vi stringo, cara moglie, balocchini miei, su questi bordi è il disgelo...
babbo è vivo e vi pensa forte
è una domenica mattina di rondini nel cielo
e vi penso forte”.
Giovanni Blanco
N° 31, maggio 2024
Mi capita spesso di pensarmi altrove, oltre il bordo del presente. In uno spazio altro e ulteriore dove la parola rinvia inevitabilmente alla pittura, alla poesia, e trova pienamente quella necessità e familiarità con l'ordinario. Una condizione immaginata tanto straordinaria da essere percepita da un'ipotetica comunità come indispensabile. Come gesto politico vero, finanche.
È forse questo il luogo nel quale desiderare di vivere? E dove si trova? Mi dico sottovoce. Uno stato d'eccezione, una grazia che misura le altezze e le profondità secondo parametri di scambio e di confronto nuovi, per andare oltre, per sconfinare il più possibile, rinvigorendo il proprio immaginario.
Forse è allo spazio dell'utopia a cui mi riferisco? Sto facendo allusione a quel territorio in cui ciascun artista sborda, inciampa, esclama e declama tutte quelle idee (anche terribili) che fanno dell'Arte la "terra promessa" della visione?
Mi pare naturale che in questa terra ideale sia possibile afferrare il senso e l'appagamento sinceri nel vedersi riconosciuti come indicatori di un viatico: un territorio magico abitato da visionari e profeti, dove i dubbi e le domande si distillano fruttuosi al fine di innestare e disinnescare nelle coscienze di chi quel territorio lo vive quegli anticorpi-pensieri capaci di neutralizzare gli abbagli sensuali del tutto uguale a tutto.
Girando attorno a questo ragionamento, dopo aver vissuto per vent'anni a Bologna, l'essere ritornato in Sicilia - ho scelto Modica come luogo d'elezione - ha inevitabilmente comportato un ridimensionamento dell'offerta culturale in senso più ampio.
Purtuttavia, sull'isola mi è venuto più semplice dare spazio a quei bisogni e desideri intimi di condivisione con l'altro, liberando pure quell'urgenza della voce che si colloca in quegli "interstizi di solitudine e di silenzio" - per dirla con Deleuze -, animando gesti e forme in modo differente.
Il contatto sensibile con le piccole comunità è talvolta capace di intensificare le visioni a cui affidiamo le nostre esistenze, probabilmente a causa di quel senso di sottrazione che per diverse ragioni non può essere arginato, circoscrivendo, nel bene e nel male, ogni risultato raggiunto in un perimetro di possibilità e respiro più corti. Ma per me, sia detto chiaramente, a quarantaquattro anni suonati questo è l'unico modo per ritornare alle cose.
Mi domando ancora: dare sostanza a quel riflesso umanissimo che origina sempre dallo specchio del mondo, per scorgere quel fantasma e quel corpo che noi siamo, è forse il fine ultimo della nostra ricerca? Uno specchio simbolico e potente, non privo però di ambiguità e di polarità contrapposte, e tuttavia plastico, dove le parole e le immagini modellano il reale e si fanno risonanza estetica e morale tali da rinviare a una moltitudine di esperienze (e di sguardi?) per superare - quando va bene - quel gap che ci estranea dai clangori che animano le piazze e le strade di altre geografie.
Dalla Sicilia tutto mi appare più bello, e ciò mi pare un buon motivo per tentare di fare ancora un quadro: un quadro che smargini oltre la cornice, assumendo la forma di un pensiero critico.
Umberto Cavenago
N° 31, maggio 2024
Umberto Cavenago, Sweet Home, 2023,acciao CorTen, scultura mobile, aperta e praticabile; Comune di Suzzara, cartello dissuasivo, 2023
collettivo damp
N° 31, maggio 2024
Gino Gianuizzi
N° 30, marzo 2024
BORDI chiama il margine e il margine per me chiama altre letture, Il libro dei margini di Edmond Jabès e Manifesto del Terzo paesaggio di Gilles Clément.
E il mio camminare qui in un territorio che è al margine e che è margine. Bordi. Gilles Clément descrive il margine come spessore. Vivo in questo spessore, margine, limite, bordo - geografico (il crinale che domina la casa segnava un confine) e insieme mentale, luogo in cui è possibile applicare categorie (pensieri, movimenti, tempi) non urbane.
Sono in questo luogo relativamente isolato da più di venti anni. In principio era una scelta originata da un abbandono e insieme fuga da una città che si stava trasformando; in principio era anche l’altra faccia di una vita che attraverso neon regolava il mio confronto col mondo: da una parte quell’intrico di relazioni belle e ricche e intense ma anche formali e obbligate; dall’altra gli alberi intorno, gli animali, l’orto, e giornate di silenzio e di isolamento.
Poi gli imboscati. Ho lanciato un invito agli imboscati, per incontrarsi e per fare consapevole che quella che mette in relazione chi ha scelto di imboscarsi non può che essere una rete a maglie larghe, le forme e i modi dell’imboscarsi non possono essere determinate da una o più regole / ci sono imboscati che vivono appartati, hanno scelto i margini fisici, i luoghi isolati, che siano boschi o pianure o isole o montagne / ma ci sono imboscati che vivono nelle città nelle metropoli e lì si nascondono fra gli altri / ci sono artisti imboscati che hanno scelto di studiare percorrere analizzare il bosco (il bosco sta per tutto il vivente non umano) come ecosistema.
Ho incontrato la scrittura di Sylvain Tesson (gli incontri sono casuali e determinanti) e trovo:
«Quei tracciati a forma di stella e quelle linee punteggiate erano sentieri rurali, piste pastorali istituite dal catasto, punti di accesso per i servizi forestali, linee di confine, antiche viae quasi prive di manutenzione. Alcune erano private, molte destinate al passaggio degli animali. Tutta la carta era percorsa da quelle arterie: erano i miei sentieri neri. Fornivano delle vie di fuga; erano luoghi dimenticati dove regnava il silenzio e non si incontrava mai nessuno. A volte i cespugli si richiudevano dopo ogni passaggio. Certi uomini sperano di passare alla Storia; noi preferivamo sparire nella geografia.» (…) «Niente a che vedere con i sentieri degli escursionisti, strade segnalate, disseminate di cartelli, frequente dagli sportivi e dai politici locali che vi andavano a correre. Anche nei pressi di un’area abitata, la carta 1:25.000 offriva delle vie di fuga: un rialzo del terreno, una discesa che si notava appena, un viottolo.» (…) «Negli anni Ottanta uno scrittore provenzale, René Frégni, ha descritto in un romanzo la fuga di un coscritto renitente alla leva che traversa tutta l’Europa con i militari alle calcagna. È un libro che lascia il segno, a cominciare dal titolo: Les chemins noirs.» (…) «Un sogno mi perseguitava. Immaginavo la nascita di un movimento chiamato confraternita dei sentieri neri. Oltre a tracciare una rete di percorsi alternativi, i sentieri neri potevano anche definire i processi mentali che avremmo adottato per sottrarci al nostro tempo: disegnati sulle mappe e serpeggianti sul terreno, si sarebbero prolungati dentro di noi fino a costruire una geografia mentale dell’evitamento.» (…) «Le regole di quella dissimulazione esistenziale si riducevano a pochi imperativi: accogliere con indifferenza le novità sensazionali, sapere con chi prendersela, scegliere le cose per cui indignarsi, quelle da amare e quelle per cui provare disgusto. Passare la vita tra montagne di libri, nei boschi, insieme a tavolate di amici.»
(…) «Eravamo stufi delle parole d’ordine del nostro tempo: Enjoy! Take care! Be safe! Be connected!» (…) «Andare per i sentieri neri e cercare le radure dietro ai rovi era un modo per sfuggire al dispositivo.» (…) «Sebbene cercassi di resistere, le nuove tecnologie invadevano tutti i campi della mia esistenza. Non c’era da farsi illusioni, non erano semplici innovazioni destinate a semplificare la vita; erano sostituti della vita. Non proponevano un’allettante gamma di innovazioni ma modificavano la nostra presenza sulla Terra. Un filosofo italiano, Giorgio Agamben, in un breve pamphlet (Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo? , Roma, Nottetempo, 2006) aveva affermato che era da ingenui crede di poterle usare bene. Esse rimodellavano la psiche umana, agivano sui comportamenti, già dominavano la lingua, iniettavano nel pensiero i loro betabloccanti, vivevano di vita propria. Per l’umanità rappresentavano una rivoluzione importante almeno quanto la nascita, risalente a quattro milioni di anni prima, della neocorteccia. Facevano evolvere la specie? Ci rendevano più liberi e socievoli? La vita era migliore da quando aveva preso a passare attraverso gli schermi? Non era sicuro. Anzi era possibile che stessimo perdendo ogni potere sulle nostre esistenze. Sempre secondo Agamben: stavamo diventando il corpo sociale più docile e imbelle che si sia mai dato nella storia dell’umanità. Andare lungo i sentieri neri significava aprire una breccia in quei bastioni. Non avendo in me né la violenza del sabotatore né il narcisismo dell’agitatore, sceglievo la fuga.»
Sylvain Tesson, Sentieri neri, Sellerio editore, 2018
Eva Sauer replica alla mia mail:
«I sentieri neri… un’immagine perfetta.
Infatti: più che imboscati siamo davvero dei Waldläufer, che seguono le strade tracciate dagli animali. Il nostro saggio istinto ci spinge oltre le strade costruite per il passaggio di quelli che non la guardano, la strada, la percorrono e basta.»
Olinsky
N° 30, marzo 2024
Nel lontano 1920 durante un lungo soggiorno estivo in Slavonia occidentale, lo scrittore e drammaturgo dilettante Paluonsky, la pittrice di bell’aspetto di icone floreali Irina Paplova, il pittore e compositore di sinfonie di ampio respiro Merediev e il maestro Olinsky convocano il “Primo congresso di arte proto cubistafuturista ironica“. Essi proclamano una nuova arte, dove la leggerezza, l’ironia, ed il piacere del fare artistico siano le fondamenta per una piacevole esistenza dell’artista.
Pur ribadendo l’impegno nella ricerca e l’analisi delle avanguardie, Olinsky evidenzia la prerogativa di un messaggio di un’arte per tutti e per pochi.
Nel 1923, quando ormai Stalin prese il potere in Unione Sovietica, Olinsky per omaggiarlo realizzò il primo dipinto proto futurista comunista La caffettiera di Stalin.
Il despota non gradì l’omaggio del nostro artista in quanto l’opera non rispecchiava esteticamente gli ideali socialisti.
Perseguitato dalla polizia segreta il nostro artista fuggì a Parigi con la sua giovane amante e allieva Raisa.
Cesare Biratoni
N° 30, marzo 2024
Dalla Treccani online ho ricavato questa definizione della parola “anamorfosi”, “un tipo di rappresentazione pittorica realizzata secondo una deformazione prospettica che ne consente la giusta visione da un unico punto di vista (risultando invece deformata e incomprensibile se osservata da altre posizioni).”
Qui ci si riferisce alla deformazione dell’immagine del dipinto, che per essere compresa richiedeva una visione tramite specchi deformanti, oppure una forte inclinazione del piano della visione (come nel dipinto degli ambasciatori di Holbein conservato alla National Gallery). Si tratta chiaramente del significante, ma si può parlare anche di anamorfosi del significato?
Se pensiamo alla tecnica del collage, possiamo immaginare che l’inclinazione del dipinto oppure l’uso di lenti o specchi si trasformi in posizione sul piano, in quantità o meno del ritaglio, in nuove modalità di visione sulla base della collocazione o dell’accostamento con altro ritaglio?
Ogni frammento mantiene una sua autonomia; resta il riferimento ad aree semantiche precise nonostante la nuova posizione assunta. Ma è l’insieme degli elementi che potremmo definire come “anamorfosi”; perché è l’inclinazione che si trasforma in disposizione a definire l’immagine da guardare, ed è la composizione, benché precaria, a divenire lo strumento ottico con cui recepire un nuovo ed inedito significato dell’insieme.
Dall’anamorfosi credo si possa anche desumere un senso di precarietà della visione, ed è forse l’elemento che le conferisce quell’inquietudine che pittori come Holbein volevano suggerire. Il tempo della comprensione dell’immagine è vincolato dalla possibilità o meno di mantenere le singole parti secondo quella disposizione, e non un’altra. E’ possibile che, per capire meglio, lo sguardo debba piegarsi, o sia necessario torcere il collo, socchiudere gli occhi, chiederne uno per evitare la visione bioculare. In alcuni casi i ritagli mantengono la loro fisicità, proiettando strane ombre sul piano, in altri è necessario comprimere tutto sotto un vetro (come fosse una lente?) per aumentare il senso di connessione tra gli elementi. E come nell’anamorfosi l’immagine distorta è la più semplice da mantenere perché richiede meno sforzo interpretativo (ma anche fisico), così anche nel collage i singoli elementi non perdono il forte richiamo alla loro origine, conferendo al tutto un senso dì lotta e conflitto che aumenta la sua incertezza temporale e ne determina la precarietà.
L’ambiguità è il terreno comune, il luogo naturale di anamorfosi e collage; mantenendo i piedi, per così dire, in aree semantiche distinte, essi riescono ad essere una cosa e l’altra senza contraddizione, realizzandosi nell’ indeterminatezza, nell’irriducibile volontà di non essere mai del tutto una sola cosa.
Pantani e Surace
N° 30, marzo 2024
The Hermit in the Garden, 2023, xilografia su MD stampata su carta bianca Fabriano Accademia 160 gr.
Fabio Sandri
N° 29, gennaio 2024
Una trave nell'occhio, è il prolungamento della macchina fotografica, indica e determina il punto di vista vincolato dal suo ingombro e dal suo peso materiale che vede lo spazio con angolature sorprendenti. Il peso della trave è il corpo di questo cono ottico che ci collega con lo sguardo di chi lo agisce.
Ricognizione, 2023, macchina fotografica, trave, fotografie.
Roberto Limonta
N° 29, gennaio 2024
Sono diverse le fonti che concordano nel riportare come le pagine mancanti del codice Latinus Vaticanus 1970, scomparse durante i tumulti del 1848, custodissero una storia che raccontava di quando i numeri finirono. Il testo rimasto è confuso e lacunoso, ricostruito qual è per frammenti, voci, ipotesi e testimonianze apocrife.
Il passato fu il tempo di una numerologia sontuosa e lussureggiante. Numeri raffinati, sottili e minuziosi come merletti (il ventisette, il cinque, alcune varianti del novantuno); o straripanti di esuberanza barocca, come il cinquecentottantanove o l’ottantacinque. Cattolici e untuosi, come l’otto e il dodici; frizzanti, come il trecentotrentasette; veloci e predatori, come il tre o il quindici o anche il quarantanove (ma su quest’ultimo il giudizio non è concorde). Alcuni sono a tal punto celebri (e celebrati) che ripeterli è in realtà un puro esercizio di ecolalia: la tetraktys pitagorica, la triade (altrettanto pitagorica) tre-quattro-cinque, lo zero, il numero di Avogadro, l’ultimo teorema di Fermat. Ma anche l'Uno platonico e plotiniano; il dodici, numero degli apostoli e dei mesi; il quattro (gli evangelisti, i cavalieri dell'Apocalisse, i punti cardinali, gli elementi fondamentali della filosofia naturale dei greci), il sette e il settanta volte sette (detto e scritto così, puri addendi senza risultato).
Altri numeri, detti infiniti, ostentano il fascino rétro di una femme fatale, una dama del lago che scruti il mondo dietro i veli del proprio cappello.
Formule, equazioni, algoritmi, calcoli differenziali: i numeri nascevano così, con naturale abbondanza e cadenza quasi quotidiana. Gemevano i torchi a stampare pagine e pagine di cifre, e i dotti trepidavano in attesa delle ultime novità come un attore aspetta febbrile, dopo la prima teatrale, l'uscita delle recensioni. Con l'avvento dell'ultimo secolo tutto cominciò a cambiare. Dapprima quasi impercettibilmente – ma parlarne, oggi, è già un atto d’accusa verso passate negligenze – e poi in modi sempre più aperti e sfacciati. Numeri dozzinali, blandi e grossolani, alcuni volutamente (provocatoriamente) appena sbozzati, ruvidi al tatto e sgradevoli ad ogni senso, epigoni di un fardello la cui esecuzione cadeva in una crescente indifferenza; una banalità dilagante e un disamore che tracimava ormai al di là delle buone maniere. Insomma, non ci si credeva più, o forse era diventato di moda il cinismo numerico, quando non il disprezzo. Si cominciarono ad alzare voci sussiegose: qualcuno azzardò – da principio cautamente – che mutatis mutandis e con tutto il rispetto, in definitiva, a esser franchi e a dirla tutta, occorreva prendere atto che questi numeri avevano un pochino (si disse proprio così, "pochino") stancato. La levata di scudi dei nostalgici apparve stanca e tardiva. Quando l'idea fu ripresa, come era fatale avvenisse, all'indignazione d'ufficio subentrò la polemica, il dibattito accigliato e i distinguo, i quali tuttavia significavano tacitamente la possibilità che sì, forse si poteva, e magari si doveva,, anzi certamente e urgentemente occorreva fare a meno dei numeri, tanto più se i numeri – e lo sguardo si allargava a destra e sinistra, con un gesto come a includere quella che si intuiva essere una pletora di oggetti insignificanti e di cui ormai si stentava a comprendere il senso – erano questi. Seguiva un sospiro, a sigillare la coscienza sporca con un simulacro di rimpianto che era ormai, in realtà, una profanazione a cielo aperto.
I primi a cadere (nomen omen) furono i numeri primi, vittime di un rancore covato a lungo sotto la cenere. Gli ultimi furono i numeri della fede e della superstizione, le cabalistiche aritmetiche della simbologia popolare. Caddero uno dopo l'altro, con tonfi regolari: il tredici, il diciassette, il sette, alla fine persino il tre, nonostante la feroce opposizione dei cattolici. Quanto ai numeri periodici, a quelli irrazionali e alle frazioni, non ci fu neppure bisogno di sopprimerli: scivolarono naturalmente nell’oblio, come foglie morte. Qualcuno sopravvisse più a lungo, in alcune pieghe nascoste dell’alfabeto, ma furono salvezze effimere.
L'ultimo numero vide la luce, stancamente, in un giorno d’aprile che il testo descrive come freddissimo. Ormai nessuno ci credeva più, ed è inutile dire (ma forse utile scrivere) che fu accolto, come si suol dire, da un assordante silenzio. Da allora ci si acconciò a soluzioni di compromesso, per dilazionare l'inevitabile, forse per un rigurgito di pietà o di cattiva coscienza. Non ci furono più numeri nuovi, ma solo riproduzioni: copie, multipli o sottomultipli, in qualche caso imitazioni e anche contraffazioni (continuavano ad esserci appassionati numerofili e, come sempre, collezionisti, commoventi sacerdoti di un dio scomparso); a volte restauri e ammodernamenti, nella speranza che cucinarli con qualche spezia li rendesse più appetibili, in vista di tempi migliori.
L'ultimo numero fu un multiplo dispari di 697, di cui non ricordo esattamente la cifra. Anche la memoria numerica ci sta lasciando.
Gianluca Codeghini
N° 29, gennaio 2024
Piedistallo, 1991, stampa digitale su carta cotone 40x60 cm + cornice