Cos'è la forma

Chiara Pergola

Dicembre 2024

 

Chiara Pergola, Quadretti, 2013 (retro)

 

Mi chiedete di scrivere qualcosa, non l’immagine di un lavoro: ma vedo che ci sono eccezioni. Non un testo poetico: ma di nuovo vedo che ci sono eccezioni. Forse ne uscirei meglio, con minor frustrazione in fondo, decidendo anche io di disobbedire alla richiesta e di ribadire – con notevole presunzione, egocentrismo e testardaggine – l’esclusiva artisticità del mio operare, mandandovi comunque l’immagine di un mio lavoro o un testo poetico. Invece non lo faccio.

Sono sempre stata molto disciplinata e anche in questo caso mi attengo alla consegna.

 

Mi ricorderò sempre, a proposito di presunzione, un episodio: mi trovavo ad una cena con artisti, critici, quelli che definiremmo “addetti ai lavori” – e diciamolo, a queste cene chi non si occupa di arte in una qualche forma (anche critica o mercantile, intendo), si trova spesso a disagio. Comunque a un certo punto, non ricordo all’interno di quale discorso, ho detto che io non mi sarei mai sentita un artista, indipendentemente dalla circolazione ed eventuale notorietà del mio lavoro. Al ché la persona che era di fronte a me si è alzata di scatto e se n’è andata. Questo mio rifiuto della definizione di artista ha suscitato reazioni scomposte anche in altre circostanze successive. Ecco per me questo sarebbe un fatto da indagare. Perché è così fastidioso che all’interno dei luoghi in cui l’arte circola, si possa trovare qualcuno che afferma di non essere un artista, o comunque di non sentirsi tale? Cos’è quest’ansia rivendicativa, classificatoria, questo bisogno di autoaffermazione? Perché non si reagisce allo stesso modo se qualcuno dice che non si sente insegnante, o impiegato, o dottore, pur esercitando per buona parte del proprio tempo queste attività? Perché non si dovrebbe applicare anche agli artisti (o ai filosofi, magari, chissà) il famoso scambio di battute tra Jean Paul Sartre e il cameriere?

 

Mi viene in mente un’altra cena, con una carissima amica, che a un certo punto mi dice: “gli artisti sono le persone più interessanti, perché hanno questa volontà di lasciare un segno”. Anche questa convinzione mi incuriosisce, perché mi pare così clamorosamente smentita dai fatti, che praticamente qualunque esempio si faccia la contraddice. Intanto si dovrebbe cominciare a definire cosa si intenda per “segno”; in ogni caso, dando per scontato che si voglia indicare qualcosa di memorabile e in senso positivo (cosa difficilissima perché la maggior parte dei segni che noi umani lasciamo sono del tutto sbagliati e sarebbe meglio che non ci fossero), mi pare che quelli lasciati dai cosiddetti artisti, o da chi è considerato tale in un certo luogo e in un certo tempo, siano decisamente labili, fragilissimi; al punto che forse, se c’è un’attitudine che accomuna questo popolo eterogeneo e desiderante, è proprio quella di evitare di significare qualcosa.

 

Allora, alla luce di questi certo non esaustivi esempi, vorrei concludere portando su questo l’attenzione: al rischio a cui ci si espone (!) nel proclamare “io sono un artista”. Perché se quella artistica è una condizione dell’essere, in caso di cattura, non c’è più nulla che possa sfuggire.

 

 

 

(Il testo che in origine avevo intenzione di scrivere era sul confronto tra due mostre viste al MAMbo, Fronte/Retro di Italo Zuffi e Monowe di Ludovica Carbotta. Ma poi il tutto ha preso un’altra direzione. Del progetto iniziale rimane il titolo, un’altra domanda “fuori luogo” che mi pare interessante tenere aperta.)