Sull'orlo del bordo

Fausto e Mariateresa Sartori

n° 22, dicembre 2022

 

Io e mio fratello Fausto stiamo lavorando ad un progetto di libro sulle immagini delle lapidi, bordi estremi e definitivi.

Da qualche anno, infatti, nei cimiteri hanno fatto la loro comparsa lapidi diverse che non parlano più dell’aldilà e della vita dopo la morte con rappresentazioni d’immagini sacre che indicano una vita ultraterrena eterna. 

 Soggetti di queste lapidi sono le passioni terrene, quelle vissute al di qua, qui, sulla terra. Una racchetta da tennis, una barca, le montagne, la tavolozza coi pennelli, uno spartito,  sono solo alcune delle immagini scolpite sulla pietra. Come se quella passione particolare rappresentasse quella persona.  Come se quella passione fosse stata ragione di vita e come se la persona si esaurisse in essa in un mirabile sforzo di sintesi.

Ho fotografato lapidi in diversi cimiteri: Venezia, Lido, Malamocco, Pellestrina, Mestre, Borca di Cadore, Milano, San Sepolcro e Digne–les-Bains.

Mio fratello ha scritto i testi, riferendosi in modo preciso a ogni singola immagine che gli inviavo.

Ma nel libro cui stiamo lavorando, non ci sarà questo accostamento: la sequenza dei testi  e delle immagini seguirà altri criteri in favore di una maggiore libertà associativa.  Per cogliere comunque il senso del lavoro che stiamo facendo ecco di seguito il testo e l’immagine che l‘ha ispirato. E poi invece altri testi e altre immagini liberamente accostati.

Da qui, dall’orlo terreno, guardiamo il bordo.

 

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Senza titolo

Luca Maffeo

n° 22, dicembre 2022

 

Dipingere muove.

In che modo? Cosa muove?

 

Il verbo dipingere indica una pratica carica di senso. Eppure, dipingere ha sempre implicato un “qualcosa”. Il “cosa” della pittura, un “qualcosa” o “qualcuno” che è stato dipinto. “Qualcosa” che si vuole raggiungere, oppure “qualcosa” da cui si vuole evadere. Astratta o concreta che sia (esiste una tale distinzione?), la pittura è così come appare, buona o cattiva, bella o brutta, lenta o veloce, analitica o sintetica…nella sua dimensione materica, pur essendo monocromatica, per affermare o negare qualcosa ha bisogno di essere, presente, sopra un supporto di qualsiasi tipo.

La verità è che forse dovremmo dire che la pittura “si muove” e il verbo dipingere, teso nel suo tempo infinito, decreta la virtù folle dell’essere umano, poiché rivela ogni tentativo di rappresentare (de-píngere) con linee, colori e forme qualunque cosa o chicchessia. Dipingere, pertanto, “muove qualcosa” attraverso la pittura, anche fosse la pittura stessa.

D’altronde, cosa c’è da capire? «Capire che non c’è niente da capire – recitava Gaber nel suo monologo su Giotto da Bondone – ma non è ancora capire?». Negli anni Trenta Man Ray si era recato presso l’Institut Poincaré di Parigi per fotografare oggetti ed esperimenti matematici realizzati da alcuni professori per spiegare equazioni algebriche. Alla fine degli anni Quaranta a Hollywood nascevano le Equazioni Shakespeariane. Un nome improbabile per una ventina di dipinti, a ognuno dei quali era stato assegnato il titolo di un Dramma o di una Tragedia (OthelloA Midsummer Night’s DreamAll’s well that ends well) e che l’artista, per sua stessa ammissione, non avrebbe voluto nominare. La matematica non gli interessava molto, «non capivo nulla», confessava all’inizio degli anni Sessanta a Jean-Marie Drot, «ma le forme erano strane e altrettanto rivoluzionarie». Il nome era del tutto arbitrario, poco adiacente al dipinto: i titoli che venivano «sempre assegnati ai dipinti per le mostre», insisteva, «io non volevo darglieli».[1] Era un modo per entrare nel merito di cosa fosse la pittura (vista nel suo contesto, nella sua temporalità), una volta eluso il compiacimento dell’oggettivazione mediante l’identificazione del nome con la forma, che sarebbe stato così definitivo da suggerire null’altro che acriticità.

Ebbene, non è scopo del dipingere, il dipingere medesimo? La qualità di un continuo costruire e decostruire, velare e rivelare, solcando la via di un’esperienza visiva?

Tolte le giustificazioni che vorrebbero l’arte ammantata di una qualche dimensione storica e sociale nella contemporaneità del suo dispiegamento (cosa assai rara e difficilissima), a noi non resta che l’esegesi di un metodo. Una strada che si apre e che si chiude muovendo i suoi estremi da un confine all’altro, rispettandone i limiti e, insieme, sconfinando continuamente.

Pertanto, dove guarda un artista e, nel nostro caso, dove guarda un pittore? Dove si muove? Tra cosa e cosa? Tra le maglie dell’arte e della sua storia, diremmo noi, oppure, andando ancora più a fondo, ciò che guarda è la Storia dell’Arte: «Nel senso del genitivo soggettivo, nel senso che è la stessa arte che porta con sé la sua storia»,[2] con la peculiarità di non metterla sotto chiave, o sotto teca, almeno, non subito. La Storia dell’Arte pittorica che interrogando la visione muove se stessa e recupera, oltre che le movenze di un gesto fisico, l’astrazione implicita ed esplicita di una teoria,[3] poiché si muove osservando.

Sotto questo aspetto, lo studio condotto da David Hockney in merito alle tecniche ottiche, usate in ambito pittorico dagli antichi maestri, (Secret Knowledge. Discovering the lost techniques of the Old Masters), fin dalle sue prime battute, chiede di porre attenzione al termine eyballing: guardare spalancando gli occhi, cosa tutt’altro che scontata; scrutare, in altre parole, pensando che, nonostante tutto, la “definizione” del dato o l’idea che su di esso si può avere, non sia, pertanto, “risolutiva”. Precisamente, con questo termine Hockeny indica il «modo in cui un artista si siede di fronte a un soggetto e dipinge o disegna un ritratto usando solo la mano e l’occhio e nient’altro, guardando la figura e poi cercando di ri-creare l’aspetto sulla carta o sulla tela. Così facendo, egli “lotta” per trovare la forma che vede davanti a sé».[4] Les Rideaux (I Tendaggi) dipinti da Paul Cézanne tra il 1885 e il 1890 sono un esempio. Sono descritti dal maestro inglese certainly eyeballed, poiché «si può vedere chiaramente come l’immagine sia stata costruita»,[5] e quale rapporto intercorra tra il suo compimento e le restanti porzioni incolore. Le figure sono più che abbozzate, eppure sono lasciate ai toni del supporto. Il disegno di Cézanne incontra un suo corrispettivo estetico nel tentativo da parte di Hockney di condurre a nuova sintesi l’azione del vedere con l’azione del costruire. In sostanza, «sto dicendo che non siamo sicuri di sapere com’è il mondo. Molti sono convinti di saperlo, ma io no».[6] In quanto a rappresentazione qualcosa si sottrae e, così facendo, si rende presente; mentre l’occhio, dal canto suo, si muove, scorre, oscilla, non vede stando fermo.

 

L’idea del dipinto come finestra sul mondo ti spinge a chiederti: «Ma dove sono? Sono in una stanza e guardo attraverso questa finestra. Non sono fuori, nel mondo». Nella teoria della prospettiva di Alberti siamo ridotti a un punto matematico. Nessuna persona reale – letteralmente: nessun corpo – ha mai visto il mondo in questo modo, se non sei morto, l’occhio è sempre in movimento. La direzione che segue il mio occhio condiziona la prospettiva, che perciò cambia continuamente. La prospettiva riguarda noi, non l’oggetto descritto.[7]

 

In fin dei conti, dipingere muovendosi tra le maglie, le specificità e limiti della pittura è un lavoro impervio. «È la violazione di una terra proibita»,[8] scriveva Mark Rothko, dalla quale soltanto pochi faranno ritorno. Un viaggio che, di là da ogni tema o referenza diretta, vive di una sua ulteriore messa in scena. Quel tentativo narrato dal pittore Luca Bertolo in riferimento a sue opere quali Saturno che divora suo figlio – copia da Goya (2017), Il paesaggio di Sabrina (Marzabotto) (2015), oppure Untitled 15#06 (2015), in cui si vede la volontà di «mettere in scena l’artificio, quello legato alla specificità del medium». L’artificio che, in questo modo, continuava Bertolo, diventa «un secondo soggetto del quadro e interagisce, su un piano visivo e concettuale, con il soggetto (apparentemente) primario».[9]

[1] J.M. Drot, La bande à Man Ray, en Les heures chaudes de Montparnasse, ORTF – INA, 1961 à 1963 et 1979 à 1990, Doriane Films, 2006,  coffret 1, DVD II.

[2] G.D.Huberman, Davanti all’immagine, Mimesis, Milano, 2016, p.67.

[3] Dal  greco Theōría = osservazione; lo stare osservando.

[4] … the way an artist sits down in front of a sitter and draws or paints a portrait by using his hand and eye alone and nothing else, looking at the figure and then trying to re-create the likeness on the paper or canvas. By doing this, he “gropes” for the form he sees before him ), trad. mia, D. Hockney, Secret Knowledge. Discovering the lost techniques of the Old Masters, Thames&Hudson, London, 2014, p. 23.

[5] «…you can plainly see how the image was constructed», trad. mia, Ibi., p. 33.

[6] M. Gayford, A bigger message. Conversazioni con David Hockney, Einaudi, Torino, 2011, p. 11.

[7] D. Hockney, M. Gayford, Una storia delle immagini, Einaudi, Torino, 2016, pp. 102-103.

[8] M. Rothko, Scritti sull’arte. 1934-1969, trad. it di R. Venturi, Donzelli, Roma, 2007, p.153.

[9] Come davanti a un mazzo di fiori, Luca Bertolo in conversazione con Antonio Grulli, in Luca Bertolo 2012-2017, Mousse Publishing, 2017, p. 19.

 


Achatina fulica

Roberto Pugina

n° 22, dicembre 2022

 

Della relazione tra l'invasione di una cittadina della Florida da parte di lumache giganti africane, l'Annunciazione di Francesco del Cossa, la "sospensione volontaria dell'incredulità", e il fronteggiarsi di due gasteropodi rosa fluo espressione del collettivo Cracking Art. 

 

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Leggo il 13 luglio 2022: -la notizia viene riportata da  molti organi di stampa-

 

“Lumache giganti africane invadono una cittadina della Florida e scatta la quarantena: sono pericolose. Il mollusco, che raggiunge i 20 centimetri, è in grado di trasmettere un parassita potenzialmente letale anche per l’uomo e, se questo non fosse già abbastanza è dannoso anche per l’ambiente. A Port Richey si combatte casa per casa… Le Achatina fulica, questo il nome scientifico delle “sgradite ospiti”, non sono nuove per gli Usa. Già negli anni ’60 vennero avvistate nel sud della Florida. Stando a quanto riferito dal Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti per riuscire a debellare la specie furono necessari 10 anni e 1 milione di dollari…”

 

Delle lumache francamente non mi importa un granché, tra l’altro assaggiate una volta, preparate a la bourguignonne non mi hanno fatto impazzire. Non mi piacerebbero, credo, neppure cucinate alla romana, alla bresciana o alla casumarese. -più interessante casomai è la circostanza che i gasteropodi siano ermafroditi-

 

Ciò che incuriosisce è invece la sproporzione tra il terribile gasteropode africano -20 centimetri di lunghezza, ma può arrivare oltre i 30- e quello più comune europeo (Helix pomatia-circa 4/5 centimetri il guscio, 7/8 centimetri corpo compreso-

 

Dal momento che quanto a numerosità di specie i gasteropodi sono secondi solo agli insetti, è preferibile restringere il campo e prenderne in considerazione per ora uno solo, uno, molto particolare.

 

L’unico (che io sappia) gasteropode  presente nell’iconografia sacra, legata al tema dell’annunciazione, lo si ritrova in  uno dei capolavori dell’arte ferrarese del Quattrocento e il suo autore è Francesco del Cossa...

 

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Ready-made bestiarium

Roberto Limonta

n° 21, novembre 2022

 

Il panglossus è un mammifero di medie dimensioni dall’indole irrequieta, di pelliccia corta e colori cangianti, con lunga coda e zoccolo fesso. Animale logofilo, sua caratteristica è il nutrirsi di linguaggio, perché dice l’Apostolo «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio» (Gv 1, 1). È goloso di congiunzioni (ma, sebbene, ciononostante) e soprattutto di avverbi (allorché, tuttavia), in particolare quelli di natura visiva come sopra, formalmente, lontano. Quando ne trova, li copre svelto con gli zoccoli anteriori e poi li mastica con lenta ruminazione; oppure li sottrae furtivo e li nasconde negli interstizi tra copula e predicato nominale. Il libro del Genesi riferisce che nell’Eden il panglossus si cibava solo dei frutti dell’Albero della Deissi (là, questo, ecco), convinto che il semplice atto di indicare potesse determinare, in virtù della perfezione del linguaggio edenico, la natura stessa della cosa. Da ciò la passione attuale del panglossus maschio per ogni genere di titolo, didascalia o etichetta.

 

Secondo fonti arabe (Al-Razhes, Summula universalis bestiarum) esisterebbe una specie priva di coda e dal pelo lungo, cinica e irrisolta, la quale si nutrirebbe solo di quantunque, che tuttavia tende spesso a confondere, per inspiegabile alterigia, con aggettivi qualificativi e interiezioni. Ma la lingua dell’Infedele è per sua natura biforcuta: ricettacolo di blasfemie e sentina d’ogni vizio, «bronzo che risuona o cembalo che tintinna» (Cor 1, 13, 1), pulvis et umbra.        

 

Il nemico naturale del panglossus è l’artifex, animale mansueto dotato di penne e che tuttavia non vola, con zampe simili a quelle dell’albatros. Dice Ratramno di Corbie che quando il panglossus gli si trova di fronte, si recide i testicoli con un morso e glieli getta, poi si mette in posizione eretta sulle zampe posteriori per mostrare la mancanza dei testicoli, di cui crede che l’artifex sia ghiottissimo, e farlo desistere dalla lotta.

 

Letale per il panglossus è ingerire preposizioni articolate, come dalle o sugli, strumenti del Grande Tentatore poiché turbano con la loro artificiosità la natura semplice della creazione divina[1]. Ma alcune specie invece ne sono ghiotte e non mangiano altro. I loro ricettari hanno raggiunto una tale complessità – con sette livelli di incisi e parole composte da 88 lettere, quante le costellazioni dello zodiaco – che alcuni li considerano retaggio della confusione babelica. Anime perse, ahimé, blandi simulacri succubi ormai del Principe delle Tenebre.

 

Jacopus de Modoetia, Legenda nova de chimeris in vacuo bombinantibus

 

[1] Da alcuni passaggi del testo sembra che l’alimentazione dell’artifex sia regolata da una semantica epistemica: si nutre infatti non di ciò che è avverbio o congiunzione ma di ciò che egli ritiene essere – o gli si è fatto credere che sia – tale. Michele Cesarius da Busto, nel suo Speculum ymaginorum, racconta di un panglossus che, moribondo per essersi saziato con aggettivi scovati nei brandelli di un manoscritto, fu risanato dalle parole di san Giovanni Crisostomo, che lo avrebbe persuaso della loro natura avverbiale.

 


Gerridae - Paradigma dei viventi, le cui esistenze si svolgono all'interno di una pellicola di pochi chilometri, "sospese tra magma e stelle"*

Collettivo  damp

n° 21, novembre 2022

 

*La Malinconia del Mammut, Massimo Sandal 


Altro appunto sul disegno

Cesare Biratoni

n° 21, novembre 2022

 

Il disegno nella sua accezione più immediata, quella di tracciare un segno su una superficie sulla spinta di una sollecitazione visiva, si potrebbe distinguere in due categorie: una diretta, ovvero un disegno dal vero, eseguito in quel determinato momento davanti a un soggetto; e una indiretta, cioè il disegno frutto di un ragionamento figurato, di un ricordo o di altro ancora non collegato all’esperienza di quell’istante.

 

Prendiamo in esame il disegno dal vero, e spogliamolo da ogni sua preoccupazione estetica. Soffermiamoci sulla postura del disegnante, su come si pone, con il proprio corpo, nei confronti del soggetto che vuole ritrarre, e su ciò che deriva dall’assunzione di questa determinata postura.

 

Il primo effetto è ritrovarsi a ragionare, a partire da quella particolare posizione, sul rapporto che si instaura con la realtà circostante. Quello che prima di cominciare a disegnare si dava per scontato, vale a dire la nostra collocazione nel mondo, ora si percepisce come condizione da costruire. È inevitabile infatti porsi col proprio corpo in un rapporto diretto con il soggetto da rappresentare: in questa prospettiva, il corpo è inteso come struttura portante degli occhi. Per questo si tende a raddrizzare la schiena, a disporre le spalle e il bacino nella direzione che ci viene indicata dagli occhi, a mettere a fuoco e a decidere una distanza funzionale all’osservazione. Questo disporsi, raddrizzarsi, girarsi e infine puntare costruisce dei rapporti di geometria tra l’asse degli occhi (primi e veri protagonisti dell’esercizio) e il resto del corpo; in primis le spalle, per poi scendere fino al bacino, e arrivare infine alla punta dei piedi in relazione alla posizione delle gambe. I “rapporti” posturali predispongono l’apparato visivo a una prima formalizzazione dell’esperienza, ovvero ad una strutturazione dello spazio e degli oggetti in termini di semplificazione geometrica, rappresentata dalla trasformazione in due dimensioni di una realtà tridimensionale. Tale operazione non è frutto di un cosciente calcolo razionale, o dell’agire – per noi inconsapevole – di una forma pura a priori del nostro apparato visivo e cognitivo, ma procede dalla prossemica del corpo, dalla concreta, fisica e contingente disposizione di un soggetto disegnante che è tale in quanto è al contempo, e in primo luogo, quel corpo, e quindi quelle mani, quegli occhi, quelle spalle, quel bacino. 

 


Bordi e linee di fuga

Jean-Marie Reynier

n°20, ottobre 2022

 

Caro Cesare, caro Ermanno,

 

ormai è passato un certo tempo da un mio intervento in qualche iniziativa di Ermanno. Alcuni cambiamenti radicali di vita ne sono soprattutto la causa: volontari o involontari che siano, questi mi hanno portato un po’ lontano. E di bordi nel frattempo ne ho toccati, soprattutto i bordi dei bicchieri che hanno finito per uccidermi, o gli aghi che passando dentro ai miei bordi mi hanno resuscitato ben quattro volte. Meglio di Cristo (anche lui una figura profondamente sui bordi sia detto fra noi).

 

Spesso mi sorprendo a pensare a quello che un professore di scienze disse alla nostra classe alla scuola media, mentre parlava degli atomi: disse che per capire la proporzione fra il nucleo e i neutroni bisognava pensare a una moneta da cinque franchi (scuola in Svizzera) in mezzo a uno stadio e che gli ultimi spettatori degli anelli di curva in realtà erano il bordo del tutto. Mi son detto, esattamente in quel momento, che eravamo tutti vuoti, e con un po’ di concentrazione saremmo potuti passare attraverso tutto.

 

Poi ho scoperto il sesso e questa riflessione è rimasta in fondo a un cassetto della memoria, fino a qualche anno fa: come tanti altri spunti, appunti, annotazioni prese ai bordi della memoria e che in seguito si sono risvegliati, durante l’ospedalizzazione dello scorso anno.

In quattro mesi e mezzo di letto d’ospedale, sobrio e sopravvissuto in un’astinenza etilica forzata per la vita, un paio di idee ti rimbalzano in testa meglio di una molecola di fentanyl che ti aiuta a rappezzare i bordi della tua vita.

 

Comunque, tutto quello spazio vuoto fra il nucleo e i neutroni mi gira in testa, è il caso di dirlo. Un altro punto che ha iniziato a ritornarmi con più insistenza è il fatto che un’iperbole equilatera riferita ai propri asintoti (che sia k > 0 o k < 0, poco importa) si avvicini allo zero senza mai toccarlo, e quest’ultimo all’infinito.

 

Durante il soggiorno in cure intense, ho cercato di spiegare al grande capo del servizio di psicologia dell’ospedale di Nyon che la fonte del mio alcolismo e quindi delle mie angosce (in questo ordine preciso, dopo ne spiego il perché) era da cercare in quei due elementi scientifici che dalla mia adolescenza hanno scaraventato il mio cervello nel vuoto senza che in nessun momento cercassi di proteggerlo. Credo che abbia capito, a modo suo, perché è partito senza prescrivermi nulla e ridendosela di gusto. In quel momento mi son detto che in fin dei conti, stavano riparando il vuoto e che dovevo lasciarli fare, perché loro quel vuoto lo capivano a differenza di me che al posto di volerlo capire ho solo cercato di riempirlo per 40 anni (non vogliate trovare nessuna accezione morale a tutto questo, a me la morale fa vomitare).

 

Con questo non voglio dire che se fossi diventato uno scienziato non avrei avuto una pancreatite fulminante dovuta all’alcolismo, anzi, credo che mi sarei strafatto di altro e sarei pure morto prima.

 

In fondo (il fondo è un bordo, per essere chiari), tutto il senso della mia pratica artistica risiede lì, in quella dicotomia tra vuoto teorico e pieno carnale.

 

Ho scelto d’essere artista in quel momento, durante le scuole medie, dove mi interessava tutto e tutto mi divertiva.

 

La scelta dell’artista come mestiere è legata a un ricordo chiaro della mia professoressa d’arte che all’età di 13 anni ha affermato ch’io avessi «la mano felice». La cara Gabriella Moresi forse non sapeva di aver aperto la porta a questa immagine per tutta la mia vita. Quella della mano felice è stata una scoperta semiotica fondamentale: una mano non può sorridere, ma può presentarsi come felice. Da quel momento ho cercato di capire dove si celasse il segreto della felicità in una singola parte del corpo estratta dall’intero (una sorta di “Uno” plotiniano). La ricerca è stata lunga, e come risultato mi son ritrovato a domandare al fisioterapista dell’ospedale di non obbligarmi a camminare ma piuttosto di farmi ritrovare velocemente la muscolatura della mano affinché potessi tenere una matita; gli ho assicurato che da lì poi, guariva anche tutto il resto. Mi ha creduto e cosi è stato: tre giorni dopo disegnavo, quattro camminavo, cinque uscivo dalle cure intense, quindici giorni dopo uscivo dall’ospedale, trenta giorni dopo mi ripartiva la pancreatite e morivo per la seconda volta…

 

Però almeno la mia mano era tornata felice e lo è restata. Da quella ospedalizzazione e per tutte le seguenti ho chiesto di mettermi le molteplici flebo su braccio e mano sinistra o sui piedi e di averne al massimo una su quello destro.  

Ho disegnato tutto il tempo.

 

A livello medico ho lasciato fare a loro, io non son buono a fare il medico.

Però sono comunque buono nel molle, lì dove si sta al caldo; son buono nella materia viva, sanguinolenta e carnale. Ma non nel contemporaneo, io son buono nel medioevo (che, per intenderci, non esiste), nel barocco; son buono nell’antifascismo morandiano e nelle parole sudate di Sandro Penna.

 

Non son buono nel rinascimento. In quello fiorentino, neoplatonico e spocchioso, per dire. A me piace quello che è successo poco prima e tanto dopo.

A me piace pensare a Leonardo che usa la prospettiva per andare dentro al corpo. Non mi piace la prospettiva finalizzata ai porticati. Per intenderci, a me la carne piace masticarla non mangiarla; per questo preferisco un piatto di trippa a una bistecca.

 

La prospettiva anatomica è come la trippa, va masticata, va condita con salsa di pomodoro sanguinolenta e va odorata prima di tutto. La trippa fatta bene (ragazzi miei) è l’unico condimento al sesso. Potrebbe essere la prova definitiva dell’esistenza di Dio.

 

Sono completamente d’accordo con il fatto che senza Leon Battista Alberti non c’è trippa per gatti, ma non posso impedirmi di pensare che una buona teoria non sia altro che qualche carota e due sedani aggiunti in cottura, mentre la vera trippa e il vero alloro sono il corpo umano che si ritrova al centro dell’universo grazie a Leonardo. Il vero cambiamento sta lì, quando con una teoria valida si va a capire cosa abbiamo dentro non quando decoriamo ciò che ci sta attorno.

Non me ne vogliano gli architetti.

 

Finita la fase ospedaliera io e Ondine abbiamo traslocato, di venti metri; ma son comunque tanti quando devi portarti dietro tutti i libri e l’arte che abbiamo accumulato negli anni. L’appartamento adesso è grande, abbiamo un solaio per l’atelier e la nostra vicina di casa è Camille, la nostra gallerista con la quale lavoriamo ormai da tre anni. La galleria Aarlo u Viggo a Buchillon. Un condensato di trippa, arte e risotto come non se ne vedevano da anni (venite a trovarci).

 

L’appartamento è sicuramente grande, ma lo abbiamo riempito a una velocità supersonica, di libri appunto, libri letti o fatti, libri d’arte, di filosofia, romanzi, trattati, polizieschi, poesia, narrativa… e poi opere d’arte, come dicevo: opere ricevute, scambiate, fatte nel tempo. L’appartamento è diventato chiaramente un teatro della memoria costruito attorno a noi due (adesso c’è pure Giorgio, il gatto) e al nostro fare: fare in quanto umani tutto ciò che ci fa riempire quegli spazi indefinibili che né la scienza moderna, né l’ontologia tomista sono riuscite a completare. 

 

Prima di concludere, vorrei tornare un istante sull’ordine «alcolismo - angoscia» che citavo sopra, semplicemente perché mi sembra doveroso dire che non ho mai veramente bevuto (in modo spropositato) per cancellare le angosce: anzi, bevevo per poter fermare un istante la voglia di riempire il vuoto, le angosce poi erano solo una conclusione alcolica di questo fare. In effetti, da quando non bevo più una goccia non ho più una sola angoscia. Questo però non implica che trovi l’esistenza deliziosa e luminosa, anzi, implica solo il coraggio di assumere che non lo sia, o che lo sia poco poco. Quel poco che basta a vivere bene.

 

Cari Ermanno e Cesare,

ecco cosa ho fatto nei bordi e nei fondali ultimamente, spero che queste ottomila battute (circa) abbiamo fatto l’effetto della centrifuga con l’insalata che speravo facessero, vi lascio condirla come preferirete, spero di vedervi prestissimo,

 

con amore

 

Jean-Marie Reynier,

artista, curatore e editore

Perroy, Svizzera


Scarpebianche.lineabianca

Silvia Listorti

n°20, ottobre 2022

 


Sogno disordinato di un architetto allo zoo

Angelo Del Corso

n°20, ottobre 2022

 

L’architettura della città è sempre in qualche modo l’architettura delle classi al potere e realizza determinati interessi[1].

 

Ideare una città intera o alcune sue parti significa comporre un organismo ordinato da aspetti formali e da impegno civile e la progettazione, nelle sue varie fasi, determina spazi e luoghi inevitabilmente “politici”. (…) Occuparsi della città, della polis, è sempre un atto politico che comporta delle decisioni derivate dall’idea di sviluppo e di benessere che l’architetto e il committente offrono alla società. (…) Pertanto l’autonomia lasciata alla discrezione dell’utente nella fruizione degli spazi urbani è illusoria. Il potere determina dove andare, dove attraversare liberamente o dove interdire l’accesso ad un luogo, l’osservare e l’essere osservati, il punto di vista del “vivere” la città.

 

Alla schiusa delle uova il pulcino del cuculo (bastard inside) sospinge gli altri pulcini oltre il bordo del nido, destinandoli a morte certa, accaparrandosi l’intero nutrimento che gli ignari genitori “adottivi” riescono a recuperare. E’ sorprendente come questo volatile riesca con una strategia economica semplice ed efficace a perpetuare la propria specie utilizzando le altrui energie per innumerevoli generazioni, senza che le vittime acquisiscano una capacità reattiva.

 

[1] Aldo Rossi, L’analisi urbana e la progettazione architettonica, CLUP, Milano, 1970

 

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Sette movimenti per una storia ad arte

2016, Prolegomeni per Tutorial Sirtaki, a cura di Elena Bellantoni e Maria Ferratto, MAXXI, Roma, 2017

Ermanno Cristini

n°19, settembre 2022

 

ATTO DI NASCITA

È facile fare un lavoro artistico, basta riappropriarsi del tempo. Tutto comincia così.

 “ Non bisogna far passare il tempo, ma anzi invitarlo a fermarsi presso di noi.” Sono le parole di Walter Benjamin nei Passages di Parigi, la principale indicazione per cominciare.

 

PREPARARE LA SEDIA

Il protagonista di Caos Calmo smette di lavorare e abbandona le sue agitate occupazioni quotidiane per sedere su una panchina, per giorni, senza tempo, così impara a guardare con altri occhi e vede.

Disporsi ad aspettare è iniziare una storia d’amore ed è l’essenza di ogni lavoro artistico. Perché l’amore è puro sperpero, come il lavoro artistico.

 “ Sono innamorato? – Sì, poiché sto aspettando”, il Roland Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso suggerisce la domanda che deve guidare il lavoro.

 

SPOSTARE LA SEDIA

Per amare bisogna avere “orrore del domicilio”, in modo da poter disporre continuamente la sedia altrove.

Mi piace quello che scrive Francis Scott Fitzerald: “Prendete una sedia e sistematevi sull’orlo del precipizio: solo allora potrà avere inizio la storia che voglio raccontarvi”

 

RITARDARE

Nella vertigine del precipizio può avere luogo il viandare come alternativa al viaggio e questo presuppone il ritardo. Il ritardo è la dilatazione del viaggio ed è il luogo dove la meta si annebbia lasciando spazio alla scoperta. La scoperta si alimenta delle pause e ci consente di vedere con gli occhi della meraviglia.

 

PERDERSI

Nella meraviglia ci si perde e perdersi è il fine del viandante perché è una modalità per esperire il limite oltrepassandolo di continuo. Camminando sul filo precario del limite si può sperimentare l’equilibrio che permette di affrancarsi dalla noia consolatoria della sicurezza tranquillizzante. Ogni opera è un azzardo dell’equilibrio.

 

RESPIRARE

Respirare è il fine ultimo. Un’attività marginale, quasi data per scontata, accessoria; considerata a sé stante assolutamente improduttiva. Eppure il cuore della vita. Tutto conduce lì: è la fine e l’inizio del viaggio. Secondo Marcel Duchamp il problema è opporre il respiro al lavoro.

Come conclusione vale il racconto di Gabriel Garcia Marquez: “Col suo terribile senso pratico, lei non poteva capire quale fosse il guadagno del colonnello, che cambiava i pesciolini con monete d’oro, e poi trasformava le monete d’oro in pesciolini, e così via”.

 

EPILOGO

Tutto qui. “Niente da vedere, niente da nascondere” dicevano Alighiero & Boetti.


Didascalia

Alessia Armeni

n°19, settembre 2022

 


Punti di caduta

Lorenzo Baldi

n°19, settembre 2022

 

Nell’esperienza moderna della conoscenza, le discipline si strutturano come sistemi organizzati e, per così dire, istituzionali. In essi la crescita delle conoscenze non può essere separata dai protocolli e dalle organizzazioni che la rendono possibile. Non c’è validità di uno studio scientifico senza revisione dei pari e senza istituzioni che ne certifichino il curriculum.

 

Non si comporta diversamente il mondo dell’arte che, da tempo, si definisce come un sistema fatto di figure professionali, istituzioni e imprese commerciali. La critica di questo sistema rischia di essere un esercizio sterile, perché esso stesso è il contesto indispensabile a definire l’arte. Meglio descriverne la topografia e individuare i luoghi dove abitarlo è possibile o desiderabile, al centro o alla periferia.

 

Si è persa del tutto la possibilità stessa di unificare il sapere. Ma allora, è proprio dai bordi di una disciplina che si può spingere in là lo sguardo, a intuire quel che accade in un’altra. E, forse, è nello spazio vuoto (privo di logos) tra un sapere ed un altro che può comparire il fantasma di ciò che non può essere detto, che “conviene tacere”.

 

Lungo questi bordi che non sono ordinati confini tracciati in campo aperto, ma punti di vista o di caduta, si dislocano molte tra le più interessanti espressioni della creatività contemporanea: dall’intermedialità di Fluxus al teatro che si trasforma in esperienza visiva, per esempio, con Bob Wilson.

 

All’alba del moderno c’è stata la sfida di Hegel: l’arte non può più risiedere nella rappresentazione e nell’immediatezza, ma si deve misurare con il concetto, con la razionalizzazione che caratterizza il suo tempo; né può più persistere come oggetto di culto, per divenire attività privata, nel senso di un collegamento inscindibile alla soggettività dell’artista. Hegel riteneva che, in questo senso, l’arte fosse destinata all’irrilevanza ma gli artisti, invece, hanno risposto alla sfida.

 

L’arte, infatti, ha cominciato a misurarsi con il concetto, a partire dall’astratto, interrogando il proprio stesso linguaggio. Fino al punto di svolta duchampiano, molti decenni dopo, nel quale echeggia la volontà di potenza e il linguaggio si riduce alla rappresentazione di un concetto, contemporaneamente mostrando il limite invalicabile di ciò che non si può più significare.

 

Lungo il bordo dal quale l’arte e la filosofia si rispecchiano, si osserva il continuo flusso delle immagini offerte sul mercato. In esso, insieme ad un permanente rischio di irrilevanza, restano aperte le prospettive di un’arte che riduce, asciuga radicalmente i suoi strumenti linguistici ad indicare la tragedia del senso perduto e, contemporaneamente, l’anelito a trascendersi.

O, d’altro canto, un’arte che gioca liberamente con le immagini, pienamente consapevole del loro limite e di una ricerca di senso che si svolge esclusivamente all’interno del suo fare, di qui alludendo silenziosamente a ciò che viene implicato in relazione ad altri saperi.


Rumori - macerie - stanze - dimore

Dino Ferruzzi

n°18, luglio 2022

 

Non vi è spazio senza rumore, come non vi è rumore senza spazio.

Il cammino inizia con il suono di piccole campane, un rumore di fondo primordiale; segnale universale che riempie ogni forma...

 

Una nota.

Il testo è un percorso che inietta dell'aleatorio nell'ordinato, richiama agli anni trascorsi con i miei studenti, di attraversamenti in territori impervi, luoghi dove ripararsi e incontrarsi, fatti di carezze.

Luoghi da cui tentare un cammino per tornare a vedere e toccare le cose.

Ecco che “L'intuizione ritorna. Ritorna lo spazio”.

 

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In direzione ostinata e contraria

Oppy De Bernardo

n°18, luglio 2022

 


Urlo

Angelo Ricciardi

n°18, luglio 2022

 

A proposito di Urlo di Allen Ginsberg, letto la prima volta nel 1955 alla Six Gallery di San Francisco

 

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