Gioco a rimpiattino con G.L.

Orio Vergani

N° 26, aprile 2023

 

Gioco a rimpiattino con G.L. ormai da qualche anno, è una nostra versione, le regole sono più semplici. Nascondiamo il nostro sguardo all’altro e per farlo ci copriamo a turno gli occhi con una mano, allora, certe volte, per qualche momento gli sguardi diventano uno. Le opere di G.L. sono inestimabili perché ti coprono gli occhi.

Tempus loquendi, tempus tacendi.

 


E fu sera e fu mattina

Luisa Turuani

N° 26, aprile 2023

 

E fu sera e fu mattina,  still da video


In bilico

Elisa Bollazzi

N° 26, aprile 2023

 

Cammino spensierata tra i vicoli del centro quando all’improvviso, attratta da una forza sconosciuta, alzo gli occhi al cielo, ma di lì a poco li abbasso in preda al panico coprendomi il viso con entrambe le mani, sarà un’allucinazione o uno strano scherzo del destino, non può essere altrimenti. Il cuore mi batte all’impazzata, il respiro si blocca, le gambe tremano tanto la visione è inquietante eppure mi faccio coraggio, guardo nuovamente all’insù, una frazione di secondo appena, non riesco a credere a ciò che vedo, mi stropiccio gli occhi e ruoto il collo in cerca di risposte tra i passanti, invano, stanno tutti camminando per la loro strada ignari di quanto sta accadendo proprio sopra le loro teste, avranno ben altro a cui pensare immagino.

 

Spetta a me intervenire, chiamerò la polizia, i servizi sociali o almeno il portiere dello stabile, non posso starmene qui inerte mentre lassù, sul cornicione del palazzo più alto della città …, oddio non fatemici pensare, lancerò un grido così potente che perforerò i timpani di tutto il quartiere, allora sì che se ne accorgeranno. Una sbirciata all’insù e subito prevedo il peggio, il sangue, le viscere, i brandelli di carne sprizzati ovunque, che orrore, di getto mi esce un urlo disumano che paralizza la scena e richiama l’attenzione del mondo intero incredulo alla vista di una ballerina della Scala che saltella beata sul cornicione del palazzo più alto della città con il suo tutù rosa e i capelli tirati all’indietro, un velo di trucco e un grande sorriso sulle labbra, è proprio così, una ballerina della Scala a trenta metri d’altezza, tra un grand jeté e un plié, uno sguardo al cielo e uno alla strada, ma come avrà mai fatto ad arrivare lassù e perché, mi chiedo sbigottita.

 

Un grido collettivo squarcia l’aria quasi fosse uno tsunami richiamando decine di persone che accorrono da ogni dove, si ammassano ai piedi del palazzo, i visi rivolti al cielo, le mani tra i capelli e gli occhi sbarrati, il panico si fa largo tra la folla e l’angoscia la fa da padrona, la città ha ormai perso il controllo. Oh, buon Dio, fai che non cada, un passo falso o una perdita di equilibrio e finirebbe spiaccicata sull’asfalto, non oso nemmeno pensarci.

Nel mentre quella sciagurata prosegue imperterrita la sua coreografia improvvisata, esegue un grand jeté, peraltro esemplare, non c’è che dire, ma a trenta metri d’altezza, che azzardo, continua con un coupé qua, un croisé là, una spaccata e perfino un inchino in cerca di gloria, ottenendola peraltro, il folto pubblico infatti apprezza e l’applaude fragorosamente dimenticandosi del pericolo che sta correndo lassù da vera incosciente, saltella avanti e indietro sul cornicione ancora umido della recente pioggia per poi balzare con un grande slancio sul cornicione del palazzo adiacente e via di corsa sempre più in là verso il palazzo successivo seguita da una folla impazzita, un insolito pubblico che sgomita scomposto lungo i marciapiedi, invade la strada, si mescola tra le macchine, le teste all’insù, corre con il fiato in gola e la segue tra applausi ma anche urla di terrore in verità. E lei dall’alto della sua prospettiva ringrazia per gli elogi con un altro inchino e prosegue a sgambettare a passi svelti, le braccia aperte, gli occhi sorridenti, il collo ritto, ah, come se la ride divertita, si libra gioiosa sulle punte dei piedi e, incuriosita dal fracasso che le giunge da laggiù, continua a sbirciare la folla trenta metri più sotto soffermandosi su una coppia che indietreggia fino al centro della carreggiata per guadagnarsi una vista migliore e piomba su un ciclista che a sua volta urta una ragazza al suo fianco, oddio che capitombolo sull’asfalto, tirandosi dietro a catena un groviglio di corpi, braccia, gambe, gomiti, piedi, mani che si ammucchiano al suolo intralciando il passo di chi li segue, esseri umani o automezzi, un vero caos urbano, mentre lei prosegue serafica la sua passeggiata in quota, in bilico tra la realtà e la creazione, libera di fare ciò vuole, lontana da ogni pericolo reale.

 

Che donna, è una privilegiata, si diverte e vede cose ad altri negate.  


Come te lo devo dire?

Federica Pamio

N° 25, marzo 2023

 


Sostenibilità dell'architettura vs Architettura sostenibile

Luca Compri / LCA Architetti

N° 25, marzo 2023

 

Sostenibilità dell’architettura

Quando varchiamo la soglia di una cattedrale gotica, il nostro sguardo volge al cielo: è un’azione automatica, spontanea che nessuno ci suggerisce; uno spazio verticale e compresso illuminato da una luce zenitale che impone un certo tipo di movimento - il guardare verso l’alto - condiviso e spesso univoco. Nella maggior parte dei casi non ci facciamo neppure caso, eppure agiamo tutti allo stesso modo.

Apprendere e associare determinati movimenti in relazione alle diverse conformazioni spaziali è un compito arduo, che si attualizza soltanto visitando architetture di valore e ripercorrendo almeno due volte lo stesso percorso: la prima, passeggiando in maniera inconsapevole e spontanea; la seconda, ripercorrendo lo stesso tragitto con mente lucida e razionale, ricostruendo e rammentando i movimenti e le sensazioni che ogni spazio ha precedentemente generato.

È così che impariamo a conoscere davvero cosa vuol dire architettura. Mi piace definire l’insieme di tali spazialità associato alle azioni che esse generano: “grammatica architettonica”. Tali elementi configurano una sorta di abaco o di tavola periodica che consentono di selezionare, abbinare e associare singole parole e periodi più complessi, dando luogo a racconti che quotidianamente possiamo vivere concretamente al loro interno.

Un buon architetto deve conoscere e padroneggiare questo vocabolario, declinarlo con il proprio linguaggio a servizio del committente che gli affida la propria casa, il proprio ambiente di lavoro, il disegno dello spazio urbano collettivo.

 

Il grande architetto portoghese Souto de Moura afferma che: “Non esiste architettura ecologica, architettura intelligente, architettura sostenibile. Esiste solo la buona architettura.”, per poi chiarire che: “Ci sono sempre problemi che non dobbiamo trascurare; per esempio l’energia, le risorse, i costi, gli aspetti sociali. È sempre necessario essere attenti a tutti questi aspetti.”

La frase riassume il senso e il valore delle gerarchie che un progetto architettonico deve assicurare; un approccio alla materia che non sempre viene seguito e rispettato, quando alla creatività e alla poesia si anticipano le esigenze di carattere energetico, prestazionale, funzionale.

Le emergenze legate al rapido cambiamento climatico e la crescente sensibilità ambientale focalizzano l’attenzione sulla necessità di risolvere i problemi legati esclusivamente al risparmio e al consumo di energia e nei casi più virtuosi tale sensibilità incoraggia un maggiore utilizzo di materiali naturali. Tali azioni stanno diventando la buona regola da seguire, ma lasciano spesso in secondo piano il contesto e la ricerca spaziale.

Quando visitiamo il Pantheon ne rimaniamo immediatamente abbagliati, nessuno di noi si pone il problema di quanto l’edificio possa consumare e con quali stratigrafie esso sia stato costruito. Sono speculazioni che arrivano in un secondo momento, quando l’effetto della meraviglia sfuma e lascia il posto a domande e curiosità di ordine più pratico.

A tale principio dovrebbe ispirarsi oggi anche il progetto di edifici bioclimatici e bioecologici, superando un concetto di “sostenibilità”, che si accontenta di annullare le emissioni di CO2 senza preoccuparsi di dare anima alle architetture.

L’università e i corsi di specializzazione troppo spesso insegnano a isolare in modo efficace una casa senza porre l’attenzione sulla possibilità che determinate azioni, seppure virtuose, si sviluppino in modo organico con le regole base del buon progettare. In molti esempi proposti in ambito formativo, grandi aperture vetrate su fronti esposti a sud, prevalgono sulla volontà di incorniciare panorami ed elementi di rilievo che si affacciano a nord, dando luogo ad abitazioni completamente estranee al contesto e alle preesistenze di maggiore pregio che le caratterizzano.

Progettare e costruire oggi non rispettando l’ambiente è un atteggiamento di per sé, oltre che anacronistico, eticamente sbagliato. L’ecologia è pertanto uno dei vincoli del progetto architettonico ma non il suo scopo ultimo. Per questo ritengo sia più proprio parlare di sostenibilità dell’architettura e non di architettura sostenibile.

 

Architettura primitiva

Un altro aspetto che ha inciso in modo importante negli ultimi anni è la possibilità di accedere ad una infinità di informazioni in maniera immediata e, di conseguenza, spesso superficiale. Tutto ciò ha generato una cultura di tipo visivo da consumare a ritmi velocissimi, che non lascia spazio alla definizione di uno stile, alla possibilità di una verifica e di un confronto, al sedimento e quindi allo stratificarsi della memoria.

L’accelerazione e la velocità di consumo hanno atomizzato la realtà, agevolando il mondo del pensiero istantaneo, multitasking, leggero ed effimero; un pensiero estremamente fluido, disorientante, sovente fragile e privo di contenuti profondi.

Anche grazie a queste dinamiche, l’architettura si è tinta di verde a prescindere dall’effettivo grado di ecologicità che la caratterizza. Così, produttori di finestre in PVC presentano i loro prodotti come “green” facendoci notare che al microscopio la molecola della loro plastica somiglia a quella di un essere vegetale, mentre finte pietre stampate su materiali di sintesi ambiscono ad una nuova mineralità. La nuova moda imperante è il greenwashing.

Percepisco tale condizione come particolarmente artefatta, rumorosa e ridondante; ma l’architettura può aiutare a trovare appigli più solidi ai quali potersi affrancare (firmitas).

Si può pensare a un progettare che definirei primitivo.

In tale prospettiva si esclude tutto ciò che disgrega lo spazio e la luce, tutto quanto mette in discussione semplici verità (la ceramica che finge il legno, ad esempio). Si spoglia il progetto dal superfluo, si rifiutano materiali non autentici, si valorizzano le esigenze dei committenti attraverso la definizione di un loro spazio, posto in relazione con la luce che lo fa percepire.

Parallelamente, è necessario far ricorso alle nuove tecnologie - quali i processi di prefabbricazione - ma nel contempo è necessaria la definizione di un linguaggio contemporaneo capace di recuperare materiali naturali della tradizione: il legno, la paglia, il sughero, il gesso, la ceramica, la canapa, il ferro, etc.

Chi scrive di futuro prossimo e di ambiente dà per scontato che nel 2050 aria e acqua diverranno beni rari e preziosi; piccoli centri di montagna, oggi abbandonati, diventeranno i posti più richiesti - e più cari - dove acquistare casa e andare a vivere.

L’architettura a cui credo si muove lungo tale prospettiva, guarda all’essenziale pur non essendo miminalista affinché emozione e poesia possano manifestarsi senza veli, risultando indispensabili come l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo.

 

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Storia di un libro

Giovanni Bai

N° 25, marzo 2023

 

Non c’erano molti libri nella biblioteca di casa, anche se i miei genitori non solo erano alfabetizzati, ma addirittura diplomati. Sì, papà aveva faticato a prendere la maturità scientifica (come poi feci io), credo con bienni e scuole private, non certo per mancanza di capacità, ma di voglia. Si era anche iscritto alla Cattolica: scienze politiche (come me…) ma non si vergognava a dire che aveva dato solo un esame di Morale. Non ha mai comprato un quotidiano e leggeva i libri condensati di Selezione. Comprava per noi L’intrepido e Il monello, anche se poi mi convinsi che erano in realtà per lui, le letture della sua adolescenza. A queste letture devo comunque la preziosa conoscenza di Nancy di Ernie Bushmiller. (Il fumetto era ribattezzato Arturo e Zoe: in Italia la vera protagonista diventava la spalla). Quand’ero piccolo, però, mi raccontava le storie di Gingis Bulka, chiaramente ispirate al Taras Bulba di Gogol, dimostrando quindi delle conoscenze pregresse. Aveva anche fatto teatro, tuttavia il suo pezzo forte era La classe degli asini di Ferravilla (“Signorina Maccabei, dove sono i Pirenei?” – “ Veramente non saprei…” – “Vada a posto con un sei!”). Solo in età più tarda cominciò a leggere manuali di prestidigitazione.

Mia madre, diplomata maestra (era stata supplente di Rodari, ma aveva insegnato solo nel periodo della guerra nei luoghi più disagiati delle Prealpi varesine, per poi dedicarsi alla famiglia), leggeva Oggi e Guarire. Anche lei da grande ricominciò a leggere, spesso i libri che io le consigliavo.

Nella piccola biblioteca di casa c’erano i suoi libri di ragazza, c’era Pirandello e alcuni autori ungheresi che probabilmente andavano di moda negli anni quaranta.

Un libro che mi incuriosiva, recentemente ritrovato in cantina, era L’isola delle donne belle di Armando Fraccaroli, giornalista, viaggiatore e scrittore coloniale. Non so, ma suppongo fosse amico di Montanelli. L’isola in questione era Bali e il libro illustrato con fotografie di donne a seno nudo. La prima edizione era del 1934, anche se a mia madre fu regalato per il matrimonio, credo. Anche l’Artusi fu un regalo di matrimonio.

Le donne balinesi erano delle selvagge, quindi potevano stare a seno nudo; quanto a mia madre, probabilmente pensava che ai suoi figli quelle cose non potessero interessare. Io alle elementari apprezzavo quelle immagini, mi piacevano quei seni. Non trovavo morbose quelle immagini e non solo perché non erano proibite, le trovavo naturali e nulla più. Chissà, forse mio fratello maggiore le avrà apprezzate maggiormente.

 


(NdA: la macchia marrone è un fiore secco)

 


Senza titolo

Giulio Lacchini

N° 24, febbraio 2023

 

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In pura e concreta forma

Tiziano Doria per WARSHADFILM

N° 24, febbraio 2023

 

2022, frame da film 16 mm

 


Hi, my name is Giulia, I’m an artist and I’m trying to stop

Giulia Currà Traslochi Emotivi

N° 24, febbraio 2023

 

Trasloco

s. m. [der. di traslocare] (pl. -chi).–L’azione del traslocare e del traslocarsi; è voce più com. nell’uso corrente di trasferimento, e indica soprattutto l’insieme di operazioni materiali con cui, nel cambiare abitazione o sede di attività, il trasferimento si compie: trasporto di mobili e oggetti d’uso da un luogo a un altro, sistemazione nei nuovi ambienti, ecc.: Il trasloco è un enorme giramento di testa: i rumori esterni occupano il silenzio incessantemente ecc.; viaggio, forma di agonia, trauma, scelta, stato pacifico, un oceano, un mare di ritrovamenti; una continuazione: menzogna è costante; include lascito e cura; esiste in perenne slancio: tendere verso; la propria vita può diventare quella di qualcun altro: ci si fa sputare in bocca, ci si fa possedere, ci si fa assorbire.–Il trasloco è un bordello; spazio intermedio, spazio inesistente; esiste perché esiste il movimento, è invasore, malsano e traditore.–Il traslòco: non media, esplode addosso.–E’ violenza, balsamo.–E’ K; non solo un semplice moto ordinato da un punto ad un altro; la smentita di ciò che si pensava fosse un semplice trasferimento di oggetti, appare come chiara dissociazione: di colpo, ignoti a noi stesse; ce la si può cavare, ma il modo più semplice per viverlo rimane sciogliere le catene di un risentimento, andarci addosso, venirci dentro, stringerlo, ascoltarlo, morsicarlo, goderne ed infine usarne l’essenza per vivere l’orgasmo di un’imprendibile entità.–Così: perdizione e potenza.–Il trasloco è un tempo più o meno stabilito: si può intravederne uno sviluppo, un inizio e una fine per chi è fortunato, una trasformazione, un cambiamento (trapianti di memorie e novità continuano a produrre inizi).–Rischio: oblio o resurrezione; alcuni tentano di rimanere in equilibrio, i coraggiosi rimangono in ascolto; tutto si conclude prima di iniziare e nello sviluppo ripetitivo di un flusso apparentemente saturo, ci si scopre portatori di avventure, tragedie, meschinità e gioie.–Proprio lì, in quel battito, in quel sudore di giornate passate ad inscatolare, ci si accorge della sua infinita azione fertile e benefica; può diventare drammaturgia, concerto, separazione, viaggio; non esclude niente: ricettacolo, rifugio, porto, ambiente malfamato, fortino, acerbo,  prudente, non sano, eccessivo, respingente, sobrio, assoluto nulla, solitario, sciatto, illusorio, censurato, forno di mostruosità o banali scommesse.–Entità devota allo sputo, a quello strato di polvere appiccicoso da lasciare, bagnare, pulire e asciugare (ad un assordante rumore, allo scotch marrone, a scatole, a furgoni, all’odore di benzina e pomodoro, alla carta consumata, alle cartoline già spedite, ai dettagli persi nelle tasche, al retro di un magazzino, buio, lucente, pieno di api, zanzare e piante selvagge, alle cinque di mattina, alla sveglia rotta, alle code in strada, alla sigaretta in macchina, al cambio delle ruote, la schiena frantumata, le unghie nere, le coperte, le cinghie, la salsa).–Biodiversità in perenne gestazione: accomodata tra divani, cargo o chiatte; non si arrende e continua a immaginare d’essere, se non nei magazzini abbandonati, dove i traghettatori ne curano quotidianamente il peso inquieto, lasciando al macero l’onere di dimenticare, a noi di smagliare e ricostruire.

 

Aria”, frammento da un libro a venire di Giulia Currà

 

Deposta, still da performance di Traslochi Emotivi, ph. Thomas Valerio/Memoria Video, Venice Luggage Deposit, 21.04.2021, Venezia

 


Travalicabili, a volte confusioni

Davide Dal Sasso

N° 23, gennaio 2023

 

I bordi son confini. E con ciò parrà che la questione sia risolvibile, per così dire, con una certa rapidità.

In tal caso, infatti, sembrerebbe che la si possa ridurre al mero problema di come si usino le parole. Ma, guardando oltre il linguaggio, si tratta invece di riconoscere che quello che è per sua natura liminale è invito a porci domande sulla nostra posizione. Su dove siamo e, per dovuta conseguenza, anche su quello che facciamo. Certo, non è una rigida consequenzialità quella che si può palesare così, tutt’a un tratto. Perché, potremmo chiederci dove siamo senza necessariamente tirare in ballo anche quesiti su che cosa fare. Ma, nel momento in cui ci cimentiamo con i primi quesiti, stiamo facendo qualcosa. Siamo già attivi. E, una dopo l’altra le nostre azioni determinano che succeda qualcosa. Per esempio, che nonostante ci troviamo lì, su un bordo, anziché rimanere sulla soglia decidiamo di muoverci. Sconfiniamo. Andiamo da qualche parte.

 

Attivarsi perché vi sono dei bordi può voler dire molte cose. Innanzitutto, non solo che siamo su un confine. Ma, per esempio, che saremo inclini a fare qualcosa perché non lo riusciamo a riconoscere, nonostante vi sia. A volte capita che vada così con i colori: qualcosa è grigio poiché un bianco è andato al di là di un nero; tra i due vi sono bordi, ma sono confusi. Il grigio è frutto dell’amalgama. Così è anche quando, se volessimo, potremmo chiederci dove finisca la notte e dove abbia inizio il giorno. Quale linea sia possibile riconoscere, tra l’una e l’altro. Naturalmente, non possiamo riconoscerne alcuna. O forse, la possiamo individuare nella luce, nel suo apparire in un certo momento. E da quel momento sarebbe possibile ammettere che un bordo magari vi sia. Forse, una linea all’orizzonte; forse, i bagliori luminosi che segnalano il retrocedere dell’oscurità. Forse, quello che facciamo si confina a sua volta nella troppa elementarità delle nostre osservazioni. Forse.

 

Altri quesiti sorgono di nuovo anche guardando all’orizzonte: siamo invitati a esercitare l’immaginazione per riuscire a contemplare qualcosa che è ben distante da quella imprecisa linea. Sono fantasticherie, quelle che possiamo fare sulle terre lontane. Su come saranno quei luoghi, ammesso che vi siano per davvero. Ci troviamo a essere visionari perché guardiamo dalla nostra posizione, dal luogo in cui siamo, da un punto sopra a un vasto globo terracqueo. Il bordo è quello che segna il punto di incontro tra cielo e terra. Lì dove finisce l’una, inizia l’altro. E stiamo ancora una volta esercitando lo sguardo congetturando; giacché le scienze ci informano di altri elementi ben più importanti da considerare, tenendo conto di come è fatto il globo e della conformazione del cielo. Ma, ancora quando guardiamo le terre che affiorano dalle acque, si palesano quei pretesi bordi e con loro le nostre ostentazioni. Parliamo di bordi: affermiamo i nostri limiti. E tutto quel confinare non rimane certo questione meramente dialogica.

 

Strappati, i lembi di un foglio di carta sono definiti concretamente da bordi che non sono più solo regolari. I confini si stabiliscono. Non sempre e non solo secondo scelte precise. E, a volte, essi si presentano quasi come fatto naturale. Incontestabile, nonostante cerchiamo insistentemente di volerlo emendare parlandone.

 

Cerchiamo l’ombra, un poco di refrigerio. Per trovarli dobbiamo metterci al riparo dalla luce. Tutto si muove, ma le fronde degli alberi non sono ombrelloni. Pochi passi di lato, avanti o indietro: in pochi istanti l’ombra lascia il posto alla luce. Dove stiano i bordi è nuovamente difficile dirlo. Il loro pronunciarsi è ancora legato al nostro sistemarci da qualche parte. In quel modo mettiamo ancora altra luce anche sul nostro farci e rifarci nei confini, in linee di demarcazione la cui nettezza potrebbe essere ben meno precisa di quanto ci sembri.

 

Così vanno le cose anche negli incontri con gli altri. Bordi, quelli dei nostri corpi che ci appartengono naturalmente e che in base a come siamo fatti ci caratterizzano essendo disposti in modi diversi, in ciascuno di noi. Il mio bordo, però, definisce il punto concreto in cui si esaurisce la materia della quale sono fatto. I bordi del mio corpo sono i miei bordi, i limiti di me stesso. Qualcuno vorrebbe dire che sono solo corporei. Aggiungeremo allora, d’accordo con un’accezione monista, che sono i miei bordi. Alcuni sono nei miei capelli, altri sulla punta dei piedi: io inizio e finisco in quei materiali. Ma i miei limiti si manifestano anche con quel che io concretamente non sono. Mente e corpo sono tutt’uno. I lutti che possiamo provare sembrano confermarcelo. Solitamente, però, non siamo così decisi nel sostenerlo. Potremmo allora provare ad andare in direzione delle propensioni, facendo nostri studi sulle logiche dei comportamenti e di ispirazione pragmatista.

 

Proviamoci.

 

I bordi son concreti, allo stesso tempo immateriali. Pensare è agire. Quel che di un incontro ci si presenta è anche l’eventualità di uno scontro. In amore, ci è ben noto. Ma non è per perdere tempo o per fare risuonare le astuzie del linguaggio che poniamo siffatti altisonanti quesiti – casomai ce ne fosse bisogno. Piuttosto, è perché quando siamo sull’orlo dell’ammissione di un eventuale cambiamento, stiamo anche mettendo i piedi su un bordo. Lì, proprio lì. Siamo. Potrà essere precipizio o altura. E quel bordo segnerà comunque un cambio di scena, una linea che si sta lentamente presentando. Sotto ai nostri piedi, davanti a noi; sopra le nostre teste, di lato o in obliquo. Mentre la diremo già troppo presente, saremo probabilmente anche propensi a superarla, quella linea. A far del limite una eventuale possibilità. Dire è già fare. È così che i bordi si trasformano. Si rinnovano e consentono di compiere spostamenti verso nuove mete. Permettendoci di varcare soglie, anche quando non ci pare sia possibile farlo.


Edge (bordi)

Silvia Negrini

N° 23, gennaio 2023

 

Edge (bordi), 2022, smalto su tela, 100x150 cm


In pura e concreta forma

Per una visione della visione

Samira Guadagnuolo per WARSHADFILM

N° 23, gennaio 2023

 

Nella grotta di Hohle Fles - in Germania - è stata ritrovata una statuetta raffigurante un uccello in volo risalente a 30000 anni fa.

Chi fu l’uomo che ha trasformato un pezzo di avorio in una forma nuova, cambiando così per sempre il destino umano?

 

E’ stato il volo degli uccelli, il loro canto fatto di aria?

La loro capacità di stare sulla terra e alzarsi verso il cielo, raggiungendo un elemento tanto distante e inaccessibile, quasi non dipendessero dalle nostre stesse leggi naturali?

E’ stata la loro capacità di partire e tornare e - metaforicamente - staccarsi dalla terra, che ha fatto sorgere il desiderio di dare forma a questa fascinazione e a questa immaginazione?

 

La natura specifica del linguaggio e dell’attività artistica risiede nella distanza. Ma quale distanza e da cosa?

Dall’esistenza immediata e dall'esperienza immediatamente vissuta. Volgendo lo sguardo verso un’immagine dell’esperienza e avvicinandosi ad essa come ad una soglia in grado di condurre a nuovi livelli di significato.

 

Ed è a questo essere lontano, a questa capacità paradossale di concepire l’esistenza cui l’uomo deve la sua grandezza, che si ispira la prospettiva ( a volo d’uccello, con uno, due o tre punti di fuga ) che appunto consente una visione inaudita del mondo.

 

Alla suggestione del volo appartiene la funzione dell’immaginazione e all’immaginazione appartiene la visione.

 

In un famoso sermone Meister Eckhart, il mistico medievale, spiega: “Mentre venivo qui oggi, meditavo sul modo di predicare a voi per poter essere compreso, e mi è venuto in mente un paragone. […] Il paragone aveva a che fare col mio occhio e col legno: se il mio occhio è aperto, è un occhio; se è chiuso, è lo stesso occhio. Reciprocamente niente si aggiunge o si toglie al legno nell'essere visto. Ma ora comprendetemi bene! Se accade che il mio occhio, uno e semplice in sé stesso, sia aperto e rivolto con lo sguardo al legno, ciascuna delle due cose rimane quella che è, e tuttavia, nel compimento della visione, divengono a tal punto una cosa sola, che si può dire con verità occhio-legno, e il legno è il mio occhio. Se anche il legno fosse immateriale e puramente spirituale come la visione del mio occhio, si potrebbe dire effettivamente che, nel compimento della mia visione, il legno e il mio occhio si trovino in un solo essere.”

 

La visione ha la capacità di spostare il nostro centro altrove.

 

Torniamo quindi ad osservare il volo e il fascino che esercita su di noi: non ha percorsi tracciati, procede per intuizione, discontinuità, frammenti. La sua struttura non è data, e si trasforma in continuazione. Se anche esiste una meta, consente infinite divagazioni; i suoi punti di vista cambiano di continuo, sono molteplici, assomigliano al policentrismo delle prospettive rovesciate di Pavel Florenskij e conducono a innumerevoli associazioni, contaminazioni, relazioni, connessioni; tutto è visto e compreso, e noi ne siamo fratelli. La sua leggerezza ci riporta alla delicatezza dei nostri sensi, alla purezza delle forme che abbiamo la fortuna di percepire; la sua immediatezza ci ricorda la pittura classica, quelle pale dove tutta la storia accade nello stesso istante, e il tempo lineare è dimenticato.

 

Ma ciò che ci sembra ancora più importante, soprattutto nella contemporaneità che viviamo, è quella distanza che consente dalla storia personale e dal racconto contingente, libertà continuamente dimenticata - ma da sempre cercata - per raggiungere quella sublime condizione universale della visione.

 

Sempre Meister Eckhart ci ricorda: “ Tutto sarebbe donato a chi rinunciasse a se stesso assolutamente, anche per un solo istante”.

 

Cosa conduce, quindi, al di fuori della finitezza?

 

Il preistorico uccello intagliato sembrerebbe indicare che non c’è altra via se non attraverso il medium della forma. Staccarsi dall’immediato contingente, dare forma - oggettivando la propria visione - e, muovendo dalla finitezza iniziale, trasformarla in qualcosa di nuovo.

 

Così la pensiamo augurandoci un nuovo rinascimento della visione.

Canti Neri, 2019, fotogramma da film, 16mm, b\n, WARSHADFILM 

 

Uccelli, 2021, scansione da negativo 35mm, WARSHADFILM 

 

Uccello intagliato, grotta di Hohle Fels, Germania