Travalicabili, a volte confusioni

gennaio 2023

 

I bordi son confini. E con ciò parrà che la questione sia risolvibile, per così dire, con una certa rapidità.

In tal caso, infatti, sembrerebbe che la si possa ridurre al mero problema di come si usino le parole. Ma, guardando oltre il linguaggio, si tratta invece di riconoscere che quello che è per sua natura liminale è invito a porci domande sulla nostra posizione. Su dove siamo e, per dovuta conseguenza, anche su quello che facciamo. Certo, non è una rigida consequenzialità quella che si può palesare così, tutt’a un tratto. Perché, potremmo chiederci dove siamo senza necessariamente tirare in ballo anche quesiti su che cosa fare. Ma, nel momento in cui ci cimentiamo con i primi quesiti, stiamo facendo qualcosa. Siamo già attivi. E, una dopo l’altra le nostre azioni determinano che succeda qualcosa. Per esempio, che nonostante ci troviamo lì, su un bordo, anziché rimanere sulla soglia decidiamo di muoverci. Sconfiniamo. Andiamo da qualche parte.

 

Attivarsi perché vi sono dei bordi può voler dire molte cose. Innanzitutto, non solo che siamo su un confine. Ma, per esempio, che saremo inclini a fare qualcosa perché non lo riusciamo a riconoscere, nonostante vi sia. A volte capita che vada così con i colori: qualcosa è grigio poiché un bianco è andato al di là di un nero; tra i due vi sono bordi, ma sono confusi. Il grigio è frutto dell’amalgama. Così è anche quando, se volessimo, potremmo chiederci dove finisca la notte e dove abbia inizio il giorno. Quale linea sia possibile riconoscere, tra l’una e l’altro. Naturalmente, non possiamo riconoscerne alcuna. O forse, la possiamo individuare nella luce, nel suo apparire in un certo momento. E da quel momento sarebbe possibile ammettere che un bordo magari vi sia. Forse, una linea all’orizzonte; forse, i bagliori luminosi che segnalano il retrocedere dell’oscurità. Forse, quello che facciamo si confina a sua volta nella troppa elementarità delle nostre osservazioni. Forse.

 

Altri quesiti sorgono di nuovo anche guardando all’orizzonte: siamo invitati a esercitare l’immaginazione per riuscire a contemplare qualcosa che è ben distante da quella imprecisa linea. Sono fantasticherie, quelle che possiamo fare sulle terre lontane. Su come saranno quei luoghi, ammesso che vi siano per davvero. Ci troviamo a essere visionari perché guardiamo dalla nostra posizione, dal luogo in cui siamo, da un punto sopra a un vasto globo terracqueo. Il bordo è quello che segna il punto di incontro tra cielo e terra. Lì dove finisce l’una, inizia l’altro. E stiamo ancora una volta esercitando lo sguardo congetturando; giacché le scienze ci informano di altri elementi ben più importanti da considerare, tenendo conto di come è fatto il globo e della conformazione del cielo. Ma, ancora quando guardiamo le terre che affiorano dalle acque, si palesano quei pretesi bordi e con loro le nostre ostentazioni. Parliamo di bordi: affermiamo i nostri limiti. E tutto quel confinare non rimane certo questione meramente dialogica.

 

Strappati, i lembi di un foglio di carta sono definiti concretamente da bordi che non sono più solo regolari. I confini si stabiliscono. Non sempre e non solo secondo scelte precise. E, a volte, essi si presentano quasi come fatto naturale. Incontestabile, nonostante cerchiamo insistentemente di volerlo emendare parlandone.

 

Cerchiamo l’ombra, un poco di refrigerio. Per trovarli dobbiamo metterci al riparo dalla luce. Tutto si muove, ma le fronde degli alberi non sono ombrelloni. Pochi passi di lato, avanti o indietro: in pochi istanti l’ombra lascia il posto alla luce. Dove stiano i bordi è nuovamente difficile dirlo. Il loro pronunciarsi è ancora legato al nostro sistemarci da qualche parte. In quel modo mettiamo ancora altra luce anche sul nostro farci e rifarci nei confini, in linee di demarcazione la cui nettezza potrebbe essere ben meno precisa di quanto ci sembri.

 

Così vanno le cose anche negli incontri con gli altri. Bordi, quelli dei nostri corpi che ci appartengono naturalmente e che in base a come siamo fatti ci caratterizzano essendo disposti in modi diversi, in ciascuno di noi. Il mio bordo, però, definisce il punto concreto in cui si esaurisce la materia della quale sono fatto. I bordi del mio corpo sono i miei bordi, i limiti di me stesso. Qualcuno vorrebbe dire che sono solo corporei. Aggiungeremo allora, d’accordo con un’accezione monista, che sono i miei bordi. Alcuni sono nei miei capelli, altri sulla punta dei piedi: io inizio e finisco in quei materiali. Ma i miei limiti si manifestano anche con quel che io concretamente non sono. Mente e corpo sono tutt’uno. I lutti che possiamo provare sembrano confermarcelo. Solitamente, però, non siamo così decisi nel sostenerlo. Potremmo allora provare ad andare in direzione delle propensioni, facendo nostri studi sulle logiche dei comportamenti e di ispirazione pragmatista.

 

Proviamoci.

 

I bordi son concreti, allo stesso tempo immateriali. Pensare è agire. Quel che di un incontro ci si presenta è anche l’eventualità di uno scontro. In amore, ci è ben noto. Ma non è per perdere tempo o per fare risuonare le astuzie del linguaggio che poniamo siffatti altisonanti quesiti – casomai ce ne fosse bisogno. Piuttosto, è perché quando siamo sull’orlo dell’ammissione di un eventuale cambiamento, stiamo anche mettendo i piedi su un bordo. Lì, proprio lì. Siamo. Potrà essere precipizio o altura. E quel bordo segnerà comunque un cambio di scena, una linea che si sta lentamente presentando. Sotto ai nostri piedi, davanti a noi; sopra le nostre teste, di lato o in obliquo. Mentre la diremo già troppo presente, saremo probabilmente anche propensi a superarla, quella linea. A far del limite una eventuale possibilità. Dire è già fare. È così che i bordi si trasformano. Si rinnovano e consentono di compiere spostamenti verso nuove mete. Permettendoci di varcare soglie, anche quando non ci pare sia possibile farlo.