Bordi e linee di fuga

Ottobre 2022

 

Caro Cesare, caro Ermanno,

 

ormai è passato un certo tempo da un mio intervento in qualche iniziativa di Ermanno. Alcuni cambiamenti radicali di vita ne sono soprattutto la causa: volontari o involontari che siano, questi mi hanno portato un po’ lontano. E di bordi nel frattempo ne ho toccati, soprattutto i bordi dei bicchieri che hanno finito per uccidermi, o gli aghi che passando dentro ai miei bordi mi hanno resuscitato ben quattro volte. Meglio di Cristo (anche lui una figura profondamente sui bordi sia detto fra noi).

 

Spesso mi sorprendo a pensare a quello che un professore di scienze disse alla nostra classe alla scuola media, mentre parlava degli atomi: disse che per capire la proporzione fra il nucleo e i neutroni bisognava pensare a una moneta da cinque franchi (scuola in Svizzera) in mezzo a uno stadio e che gli ultimi spettatori degli anelli di curva in realtà erano il bordo del tutto. Mi son detto, esattamente in quel momento, che eravamo tutti vuoti, e con un po’ di concentrazione saremmo potuti passare attraverso tutto.

 

Poi ho scoperto il sesso e questa riflessione è rimasta in fondo a un cassetto della memoria, fino a qualche anno fa: come tanti altri spunti, appunti, annotazioni prese ai bordi della memoria e che in seguito si sono risvegliati, durante l’ospedalizzazione dello scorso anno.

In quattro mesi e mezzo di letto d’ospedale, sobrio e sopravvissuto in un’astinenza etilica forzata per la vita, un paio di idee ti rimbalzano in testa meglio di una molecola di fentanyl che ti aiuta a rappezzare i bordi della tua vita.

 

Comunque, tutto quello spazio vuoto fra il nucleo e i neutroni mi gira in testa, è il caso di dirlo. Un altro punto che ha iniziato a ritornarmi con più insistenza è il fatto che un’iperbole equilatera riferita ai propri asintoti (che sia k > 0 o k < 0, poco importa) si avvicini allo zero senza mai toccarlo, e quest’ultimo all’infinito.

 

Durante il soggiorno in cure intense, ho cercato di spiegare al grande capo del servizio di psicologia dell’ospedale di Nyon che la fonte del mio alcolismo e quindi delle mie angosce (in questo ordine preciso, dopo ne spiego il perché) era da cercare in quei due elementi scientifici che dalla mia adolescenza hanno scaraventato il mio cervello nel vuoto senza che in nessun momento cercassi di proteggerlo. Credo che abbia capito, a modo suo, perché è partito senza prescrivermi nulla e ridendosela di gusto. In quel momento mi son detto che in fin dei conti, stavano riparando il vuoto e che dovevo lasciarli fare, perché loro quel vuoto lo capivano a differenza di me che al posto di volerlo capire ho solo cercato di riempirlo per 40 anni (non vogliate trovare nessuna accezione morale a tutto questo, a me la morale fa vomitare).

 

Con questo non voglio dire che se fossi diventato uno scienziato non avrei avuto una pancreatite fulminante dovuta all’alcolismo, anzi, credo che mi sarei strafatto di altro e sarei pure morto prima.

 

In fondo (il fondo è un bordo, per essere chiari), tutto il senso della mia pratica artistica risiede lì, in quella dicotomia tra vuoto teorico e pieno carnale.

 

Ho scelto d’essere artista in quel momento, durante le scuole medie, dove mi interessava tutto e tutto mi divertiva.

 

La scelta dell’artista come mestiere è legata a un ricordo chiaro della mia professoressa d’arte che all’età di 13 anni ha affermato ch’io avessi «la mano felice». La cara Gabriella Moresi forse non sapeva di aver aperto la porta a questa immagine per tutta la mia vita. Quella della mano felice è stata una scoperta semiotica fondamentale: una mano non può sorridere, ma può presentarsi come felice. Da quel momento ho cercato di capire dove si celasse il segreto della felicità in una singola parte del corpo estratta dall’intero (una sorta di “Uno” plotiniano). La ricerca è stata lunga, e come risultato mi son ritrovato a domandare al fisioterapista dell’ospedale di non obbligarmi a camminare ma piuttosto di farmi ritrovare velocemente la muscolatura della mano affinché potessi tenere una matita; gli ho assicurato che da lì poi, guariva anche tutto il resto. Mi ha creduto e cosi è stato: tre giorni dopo disegnavo, quattro camminavo, cinque uscivo dalle cure intense, quindici giorni dopo uscivo dall’ospedale, trenta giorni dopo mi ripartiva la pancreatite e morivo per la seconda volta…

 

Però almeno la mia mano era tornata felice e lo è restata. Da quella ospedalizzazione e per tutte le seguenti ho chiesto di mettermi le molteplici flebo su braccio e mano sinistra o sui piedi e di averne al massimo una su quello destro.  

Ho disegnato tutto il tempo.

 

A livello medico ho lasciato fare a loro, io non son buono a fare il medico.

Però sono comunque buono nel molle, lì dove si sta al caldo; son buono nella materia viva, sanguinolenta e carnale. Ma non nel contemporaneo, io son buono nel medioevo (che, per intenderci, non esiste), nel barocco; son buono nell’antifascismo morandiano e nelle parole sudate di Sandro Penna.

 

Non son buono nel rinascimento. In quello fiorentino, neoplatonico e spocchioso, per dire. A me piace quello che è successo poco prima e tanto dopo.

A me piace pensare a Leonardo che usa la prospettiva per andare dentro al corpo. Non mi piace la prospettiva finalizzata ai porticati. Per intenderci, a me la carne piace masticarla non mangiarla; per questo preferisco un piatto di trippa a una bistecca.

 

La prospettiva anatomica è come la trippa, va masticata, va condita con salsa di pomodoro sanguinolenta e va odorata prima di tutto. La trippa fatta bene (ragazzi miei) è l’unico condimento al sesso. Potrebbe essere la prova definitiva dell’esistenza di Dio.

 

Sono completamente d’accordo con il fatto che senza Leon Battista Alberti non c’è trippa per gatti, ma non posso impedirmi di pensare che una buona teoria non sia altro che qualche carota e due sedani aggiunti in cottura, mentre la vera trippa e il vero alloro sono il corpo umano che si ritrova al centro dell’universo grazie a Leonardo. Il vero cambiamento sta lì, quando con una teoria valida si va a capire cosa abbiamo dentro non quando decoriamo ciò che ci sta attorno.

Non me ne vogliano gli architetti.

 

Finita la fase ospedaliera io e Ondine abbiamo traslocato, di venti metri; ma son comunque tanti quando devi portarti dietro tutti i libri e l’arte che abbiamo accumulato negli anni. L’appartamento adesso è grande, abbiamo un solaio per l’atelier e la nostra vicina di casa è Camille, la nostra gallerista con la quale lavoriamo ormai da tre anni. La galleria Aarlo u Viggo a Buchillon. Un condensato di trippa, arte e risotto come non se ne vedevano da anni (venite a trovarci).

 

L’appartamento è sicuramente grande, ma lo abbiamo riempito a una velocità supersonica, di libri appunto, libri letti o fatti, libri d’arte, di filosofia, romanzi, trattati, polizieschi, poesia, narrativa… e poi opere d’arte, come dicevo: opere ricevute, scambiate, fatte nel tempo. L’appartamento è diventato chiaramente un teatro della memoria costruito attorno a noi due (adesso c’è pure Giorgio, il gatto) e al nostro fare: fare in quanto umani tutto ciò che ci fa riempire quegli spazi indefinibili che né la scienza moderna, né l’ontologia tomista sono riuscite a completare. 

 

Prima di concludere, vorrei tornare un istante sull’ordine «alcolismo - angoscia» che citavo sopra, semplicemente perché mi sembra doveroso dire che non ho mai veramente bevuto (in modo spropositato) per cancellare le angosce: anzi, bevevo per poter fermare un istante la voglia di riempire il vuoto, le angosce poi erano solo una conclusione alcolica di questo fare. In effetti, da quando non bevo più una goccia non ho più una sola angoscia. Questo però non implica che trovi l’esistenza deliziosa e luminosa, anzi, implica solo il coraggio di assumere che non lo sia, o che lo sia poco poco. Quel poco che basta a vivere bene.

 

Cari Ermanno e Cesare,

ecco cosa ho fatto nei bordi e nei fondali ultimamente, spero che queste ottomila battute (circa) abbiamo fatto l’effetto della centrifuga con l’insalata che speravo facessero, vi lascio condirla come preferirete, spero di vedervi prestissimo,

 

con amore

 

Jean-Marie Reynier,

artista, curatore e editore

Perroy, Svizzera