Senza titolo

n°22, dicembre 2022

 

Dipingere muove.

In che modo? Cosa muove?

 

Il verbo dipingere indica una pratica carica di senso. Eppure, dipingere ha sempre implicato un “qualcosa”. Il “cosa” della pittura, un “qualcosa” o “qualcuno” che è stato dipinto. “Qualcosa” che si vuole raggiungere, oppure “qualcosa” da cui si vuole evadere. Astratta o concreta che sia (esiste una tale distinzione?), la pittura è così come appare, buona o cattiva, bella o brutta, lenta o veloce, analitica o sintetica…nella sua dimensione materica, pur essendo monocromatica, per affermare o negare qualcosa ha bisogno di essere, presente, sopra un supporto di qualsiasi tipo.

La verità è che forse dovremmo dire che la pittura “si muove” e il verbo dipingere, teso nel suo tempo infinito, decreta la virtù folle dell’essere umano, poiché rivela ogni tentativo di rappresentare (de-píngere) con linee, colori e forme qualunque cosa o chicchessia. Dipingere, pertanto, “muove qualcosa” attraverso la pittura, anche fosse la pittura stessa.

D’altronde, cosa c’è da capire? «Capire che non c’è niente da capire – recitava Gaber nel suo monologo su Giotto da Bondone – ma non è ancora capire?». Negli anni Trenta Man Ray si era recato presso l’Institut Poincaré di Parigi per fotografare oggetti ed esperimenti matematici realizzati da alcuni professori per spiegare equazioni algebriche. Alla fine degli anni Quaranta a Hollywood nascevano le Equazioni Shakespeariane. Un nome improbabile per una ventina di dipinti, a ognuno dei quali era stato assegnato il titolo di un Dramma o di una Tragedia (OthelloA Midsummer Night’s DreamAll’s well that ends well) e che l’artista, per sua stessa ammissione, non avrebbe voluto nominare. La matematica non gli interessava molto, «non capivo nulla», confessava all’inizio degli anni Sessanta a Jean-Marie Drot, «ma le forme erano strane e altrettanto rivoluzionarie». Il nome era del tutto arbitrario, poco adiacente al dipinto: i titoli che venivano «sempre assegnati ai dipinti per le mostre», insisteva, «io non volevo darglieli».[1] Era un modo per entrare nel merito di cosa fosse la pittura (vista nel suo contesto, nella sua temporalità), una volta eluso il compiacimento dell’oggettivazione mediante l’identificazione del nome con la forma, che sarebbe stato così definitivo da suggerire null’altro che acriticità.

Ebbene, non è scopo del dipingere, il dipingere medesimo? La qualità di un continuo costruire e decostruire, velare e rivelare, solcando la via di un’esperienza visiva?

Tolte le giustificazioni che vorrebbero l’arte ammantata di una qualche dimensione storica e sociale nella contemporaneità del suo dispiegamento (cosa assai rara e difficilissima), a noi non resta che l’esegesi di un metodo. Una strada che si apre e che si chiude muovendo i suoi estremi da un confine all’altro, rispettandone i limiti e, insieme, sconfinando continuamente.

Pertanto, dove guarda un artista e, nel nostro caso, dove guarda un pittore? Dove si muove? Tra cosa e cosa? Tra le maglie dell’arte e della sua storia, diremmo noi, oppure, andando ancora più a fondo, ciò che guarda è la Storia dell’Arte: «Nel senso del genitivo soggettivo, nel senso che è la stessa arte che porta con sé la sua storia»,[2] con la peculiarità di non metterla sotto chiave, o sotto teca, almeno, non subito. La Storia dell’Arte pittorica che interrogando la visione muove se stessa e recupera, oltre che le movenze di un gesto fisico, l’astrazione implicita ed esplicita di una teoria,[3] poiché si muove osservando.

Sotto questo aspetto, lo studio condotto da David Hockney in merito alle tecniche ottiche, usate in ambito pittorico dagli antichi maestri, (Secret Knowledge. Discovering the lost techniques of the Old Masters), fin dalle sue prime battute, chiede di porre attenzione al termine eyballing: guardare spalancando gli occhi, cosa tutt’altro che scontata; scrutare, in altre parole, pensando che, nonostante tutto, la “definizione” del dato o l’idea che su di esso si può avere, non sia, pertanto, “risolutiva”. Precisamente, con questo termine Hockeny indica il «modo in cui un artista si siede di fronte a un soggetto e dipinge o disegna un ritratto usando solo la mano e l’occhio e nient’altro, guardando la figura e poi cercando di ri-creare l’aspetto sulla carta o sulla tela. Così facendo, egli “lotta” per trovare la forma che vede davanti a sé».[4] Les Rideaux (I Tendaggi) dipinti da Paul Cézanne tra il 1885 e il 1890 sono un esempio. Sono descritti dal maestro inglese certainly eyeballed, poiché «si può vedere chiaramente come l’immagine sia stata costruita»,[5] e quale rapporto intercorra tra il suo compimento e le restanti porzioni incolore. Le figure sono più che abbozzate, eppure sono lasciate ai toni del supporto. Il disegno di Cézanne incontra un suo corrispettivo estetico nel tentativo da parte di Hockney di condurre a nuova sintesi l’azione del vedere con l’azione del costruire. In sostanza, «sto dicendo che non siamo sicuri di sapere com’è il mondo. Molti sono convinti di saperlo, ma io no».[6] In quanto a rappresentazione qualcosa si sottrae e, così facendo, si rende presente; mentre l’occhio, dal canto suo, si muove, scorre, oscilla, non vede stando fermo.

 

L’idea del dipinto come finestra sul mondo ti spinge a chiederti: «Ma dove sono? Sono in una stanza e guardo attraverso questa finestra. Non sono fuori, nel mondo». Nella teoria della prospettiva di Alberti siamo ridotti a un punto matematico. Nessuna persona reale – letteralmente: nessun corpo – ha mai visto il mondo in questo modo, se non sei morto, l’occhio è sempre in movimento. La direzione che segue il mio occhio condiziona la prospettiva, che perciò cambia continuamente. La prospettiva riguarda noi, non l’oggetto descritto.[7]

 

In fin dei conti, dipingere muovendosi tra le maglie, le specificità e limiti della pittura è un lavoro impervio. «È la violazione di una terra proibita»,[8] scriveva Mark Rothko, dalla quale soltanto pochi faranno ritorno. Un viaggio che, di là da ogni tema o referenza diretta, vive di una sua ulteriore messa in scena. Quel tentativo narrato dal pittore Luca Bertolo in riferimento a sue opere quali Saturno che divora suo figlio – copia da Goya (2017), Il paesaggio di Sabrina (Marzabotto) (2015), oppure Untitled 15#06 (2015), in cui si vede la volontà di «mettere in scena l’artificio, quello legato alla specificità del medium». L’artificio che, in questo modo, continuava Bertolo, diventa «un secondo soggetto del quadro e interagisce, su un piano visivo e concettuale, con il soggetto (apparentemente) primario».[9]

[1] J.M. Drot, La bande à Man Ray, en Les heures chaudes de Montparnasse, ORTF – INA, 1961 à 1963 et 1979 à 1990, Doriane Films, 2006,  coffret 1, DVD II.

[2] G.D.Huberman, Davanti all’immagine, Mimesis, Milano, 2016, p.67.

[3] Dal  greco Theōría = osservazione; lo stare osservando.

[4] … the way an artist sits down in front of a sitter and draws or paints a portrait by using his hand and eye alone and nothing else, looking at the figure and then trying to re-create the likeness on the paper or canvas. By doing this, he “gropes” for the form he sees before him ), trad. mia, D. Hockney, Secret Knowledge. Discovering the lost techniques of the Old Masters, Thames&Hudson, London, 2014, p. 23.

[5] «…you can plainly see how the image was constructed», trad. mia, Ibi., p. 33.

[6] M. Gayford, A bigger message. Conversazioni con David Hockney, Einaudi, Torino, 2011, p. 11.

[7] D. Hockney, M. Gayford, Una storia delle immagini, Einaudi, Torino, 2016, pp. 102-103.

[8] M. Rothko, Scritti sull’arte. 1934-1969, trad. it di R. Venturi, Donzelli, Roma, 2007, p.153.

[9] Come davanti a un mazzo di fiori, Luca Bertolo in conversazione con Antonio Grulli, in Luca Bertolo 2012-2017, Mousse Publishing, 2017, p. 19.