Imboscarsi

Marzo 2024

 

BORDI chiama il margine e il margine per me chiama altre letture, Il libro dei margini di Edmond Jabès e Manifesto del Terzo paesaggio di Gilles Clément.

E il mio camminare qui in un territorio che è al margine e che è margine. Bordi. Gilles Clément descrive il margine come spessore. Vivo in questo spessore, margine, limite, bordo - geografico (il crinale che domina la casa segnava un confine) e insieme mentale, luogo in cui è possibile applicare categorie (pensieri, movimenti, tempi) non urbane.

Sono in questo luogo relativamente isolato da più di venti anni. In principio era una scelta originata da un abbandono e insieme fuga da una città che si stava trasformando; in principio era anche l’altra faccia di una vita che attraverso neon regolava il mio confronto col mondo: da una parte quell’intrico di relazioni belle e ricche e intense ma anche formali e obbligate; dall’altra gli alberi intorno, gli animali, l’orto, e giornate di silenzio e di isolamento.

Poi gli imboscati. Ho lanciato un invito agli imboscati, per incontrarsi e per fare consapevole che quella che mette in relazione chi ha scelto di imboscarsi non può che essere una rete a maglie larghe, le forme e i modi dell’imboscarsi non possono essere determinate da una o più regole / ci sono imboscati che vivono appartati, hanno scelto i margini fisici, i luoghi isolati, che siano boschi o pianure o isole o montagne / ma ci sono imboscati che vivono nelle città nelle metropoli e lì si nascondono fra gli altri / ci sono artisti imboscati che hanno scelto di studiare percorrere analizzare il bosco (il bosco sta per tutto il vivente non umano) come ecosistema.

 

Ho incontrato la scrittura di Sylvain Tesson (gli incontri sono casuali e determinanti) e trovo:

«Quei tracciati a forma di stella e quelle linee punteggiate erano sentieri rurali, piste pastorali istituite dal catasto, punti di accesso per i servizi forestali, linee di confine, antiche viae quasi prive di manutenzione. Alcune erano private, molte destinate al passaggio degli animali. Tutta la carta era percorsa da quelle arterie: erano i miei sentieri neri. Fornivano delle vie di fuga; erano luoghi dimenticati dove regnava il silenzio e non si incontrava mai nessuno. A volte i cespugli si richiudevano dopo ogni passaggio. Certi uomini sperano di passare alla Storia; noi preferivamo sparire nella geografia.» (…) «Niente a che vedere con i sentieri degli escursionisti, strade segnalate, disseminate di cartelli, frequente dagli sportivi e dai politici locali che vi andavano a correre. Anche nei pressi di un’area abitata, la carta 1:25.000 offriva delle vie di fuga: un rialzo del terreno, una discesa che si notava appena, un viottolo.» (…) «Negli anni Ottanta uno scrittore provenzale, René Frégni, ha descritto in un romanzo la fuga di un coscritto renitente alla leva che traversa tutta l’Europa con i militari alle calcagna. È un libro che lascia il segno, a cominciare dal titolo: Les chemins noirs.» (…) «Un sogno mi perseguitava. Immaginavo la nascita di un movimento chiamato confraternita dei sentieri neri. Oltre a tracciare una rete di percorsi alternativi, i sentieri neri potevano anche definire i processi mentali che avremmo adottato per sottrarci al nostro tempo: disegnati sulle mappe e serpeggianti sul terreno, si sarebbero prolungati dentro di noi fino a costruire una geografia mentale dell’evitamento.» (…) «Le regole di quella dissimulazione esistenziale si riducevano a pochi imperativi: accogliere con indifferenza le novità sensazionali, sapere con chi prendersela, scegliere le cose per cui indignarsi, quelle da amare e quelle per cui provare disgusto. Passare la vita tra montagne di libri, nei boschi, insieme a tavolate di amici.»

(…) «Eravamo stufi delle parole d’ordine del nostro tempo: Enjoy! Take care! Be safe! Be connected!» (…) «Andare per i sentieri neri e cercare le radure dietro ai rovi era un modo per sfuggire al dispositivo.» (…) «Sebbene cercassi di resistere, le nuove tecnologie invadevano tutti i campi della mia esistenza. Non c’era da farsi illusioni, non erano semplici innovazioni destinate a semplificare la vita; erano sostituti della vita. Non proponevano un’allettante gamma di innovazioni ma modificavano la nostra presenza sulla Terra. Un filosofo italiano, Giorgio Agamben, in un breve pamphlet (Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo? , Roma, Nottetempo, 2006) aveva affermato che era da ingenui crede di poterle usare bene. Esse rimodellavano la psiche umana, agivano sui comportamenti, già dominavano la lingua, iniettavano nel pensiero i loro betabloccanti, vivevano di vita propria. Per l’umanità rappresentavano una rivoluzione importante almeno quanto la nascita, risalente a quattro milioni di anni prima, della neocorteccia. Facevano evolvere la specie? Ci rendevano più liberi e socievoli? La vita era migliore da quando aveva preso a passare attraverso gli schermi? Non era sicuro. Anzi era possibile che stessimo perdendo ogni potere sulle nostre esistenze. Sempre secondo Agamben: stavamo diventando il corpo sociale più docile e imbelle che si sia mai dato nella storia dell’umanità. Andare lungo i sentieri neri significava aprire una breccia in quei bastioni. Non avendo in me né la violenza del sabotatore né il narcisismo dell’agitatore, sceglievo la fuga.»

 

Sylvain Tesson, Sentieri neri, Sellerio editore, 2018

 

Eva Sauer replica alla mia mail: 

«I sentieri neri… un’immagine perfetta.

Infatti: più che imboscati siamo davvero dei Waldläufer, che seguono le strade tracciate dagli animali. Il nostro saggio istinto ci spinge oltre le strade costruite per il passaggio di quelli che non la guardano, la strada, la percorrono e basta.»