Ai cari amici di BORDI

settembre 2023

 

Ho visto la Schlein ( o era la Weil?), prendere appunti, annotare, in un sogno indicibile. Nello spazio infinito del mio vicolo cieco ho sognato tutto. Posso dire di essere già morto, ma fra morti mai morti, coraggiosi e vicinissimi. Nessun bordo, nessun confine, anche se non c’ero, io c’ero.

Cari Ermanno, Cesare e Luca quando staccai la spina dal sistema dell’arte, era il 1998, un meraviglioso fallimento mi tenne in vita. Ora, mi dicevo, vivi senza data, nel tuo tempo vuoto ed incognito, senza rispondere a nessuna violenza, aggressione, sconosciuto fra gli sconosciuti, tutti su una barca immensa. Mi si aprì un mare largo “per navigare più oltre”. I miei più piccoli vermi si fecero visibili. “Vieni a vedere la mia poesia” mi disse la poetessa, il suo nome era Amelia: un ulteriore sogno aperto, spazioso.  Che pace albergare nella propria mente, non mostrarsi più!

Cari amici, nello spazio, nudi, ci proteggiamo con le nostre sole parole, la vera pioggia su questa terra; nudi come fantasmi giriamo su questo caro, accogliente piano gassoso, un vero rifugio. “La vita è un pozzo vuoto e va rispettato il suo vuoto” dice la poetessa. Un pittore, un artista, non dovrebbe più vedere i propri quadri appiccicati alle pareti, ma dovrebbe vederli solo nello straordinario vuoto della propria mente, dove la terra finisce, nello spazio più profondo, oltre i mercati, nella penombra del fare. Niente bordi, ma solo un grande vuoto. Disfare ogni bordura, ampliarsi, salvarsi, tuffarsi nel vuoto, tutti sospesi, uniti a quel lembo a cui accenna Cesare; un lembo come quelli, a me cari, di stoffa, forse brandelli di calzini, che Luca fa rinascere fra le sue dita. Di lembo in lembo, per sempre.

Caro Ermanno, mi chiedi come sto; sto bene, stiamo tutti benissimo, con le nostre sole parole a sostenerci. Niente bordi, cari amici, e allunghiamo il passo davanti al grande vuoto. Anche se prima o poi non ci sarò, io ci sarò. Anche se prima o poi non ci saremo, noi ci saremo. Dunque, continuare il viaggio con il giusto passo, i giusti trapassi che non separano niente da niente. Non ci siamo mai mossi da qui, un po’ alla luce un po’ al buio e senza bordi. Via la data, via anche la firma e ci saremo tutti. Questa è gioia, questa è la grazia.

C’era anche Otla nel sogno, dipinta, mi sorrideva.


Prima che l'acqua ci arrivi alla bocca

maggio 2022

 

Ascoltami prima che l’acqua ci arrivi alla bocca; ogni pittore può avere successo, cioè la conferma che non può assolutamente valere più niente. Costare tanto, tantissimo, ma anche questo per confermare che non può valere più niente. Più il successo diventa importante, più i prezzi diventano importanti e più il grande artista dimostra di non valere più niente, che la sua arte, grande e grandissima, non vale più niente in questa vita, su questo pianeta, in questo spazio. Perché l’inutile arte dovrebbe valere qualcosa su questo pianeta, dire qualcosa, servire a qualcosa? Perché gli artisti famosi e famosissimi, contemporanei e internazionali, imbesuiti dalla loro arte, dalla loro celebrità, dalla loro inutilità, dovrebbero dire qualcosa? Calmati, aggrappati a me. Perché dici questo?

Non lo so, non dovrei? Anche gli artisti poco conosciuti e sconosciutissimi sono inutili, imbesuiti. Affoghiamo nella nostra inutile creatività. La terra è la nostra unica prigione e dovremmo bruciare tutto quello che facciamo, anzi non farlo neppure. Troppo consumo per stare in piedi, per vivere, per sostenere i nostri gesti artistici. Basta: dobbiamo dipingere il meno possibile, vivere il meno possibile, non vendere niente. La prigione è questo suolo che viviamo, non c’è altro suolo, non c’è altro spazio. Valiamo poco, approfittiamone per liberarci di tutto. Ma non ci si può liberare più di niente. Ricordati di cosa abbiamo in tasca, l’oggetto che vibra, che possiamo silenziare; non cambiamolo più, siamo virtuosi, non cediamo agli inganni dei mercati. Utilizza più che puoi anche il tuo dipinto, l’unico che puoi ancora fare come se fosse l’ultimo.

Ho letto il pezzo di Ermanno su l’opera d’arte “tra frequentazione e pornografia” e mi è piaciuto molto e moltissimo alcuni antichi nomi, Wind, Pareyson, che leggevo da giovane. Che nostalgia ripensare a quelle letture. Potresti rituffartici dentro.

No, non potrei rituffarmici dentro, preferisco ciò che sono oggi, quello che vedo oggi, quello che oggi non posso più essere. Infatti non sono. Infatti so di non essere niente. Posso dipingere, mi è concesso, sono un uomo libero fra uomini liberi, pur sapendo che dipingere non serve a niente. Eppure respiro, così nudo e vuoto di senso, io respiro; respiro anche dopo due anni di mascherinamento. Mai visto in vita mia umanità migliore, più bella, anche se col viso coperto, perché non si poteva veramente più guardare in faccia nessuno e col viso un po’ coperto (tranne gli occhi, mai stati più belli) ho cominciato a vedere in faccia qualcuno, come per la prima volta; i volti, si, ho cominciato a rivedere qualche volto.

Si, oggi respiro, il mondo è meritatamente di nuovo nella merda, la nostra merda, ma io respiro più di prima. Anche i morti, che non respirano più, respirano dentro di me, mi fanno respirare molto. Non so più perché io dipinga ancora, ma so che respiro. I quadri li sbaglio tutti ormai, ma respiro. Ottimo il quesito in fondo al pezzo di Ermanno, “ … come si pone il tema della messa in forma nell’epoca in cui il contesto ecc. …”, ma oggi credo che sia difficile porsi questo quesito, perché è terminata la necessità di inventare il linguaggio artistico, è proprio finita questa necessità; questo problema, forse per alcuni ancora urgente, sentito, credo non sussista più.

Credo che la vera “messa in forma” siano ancora gli affreschi del ‘400, lì fermi, che non si sono mai mossi. Il Tributo di Masaccio è lì, non si è mai mosso, carico di quella vera gioia profonda che noi non possiamo più conservare, non possiamo più rigenerare. Al contrario una tela cosa vuoi che sia, cosa saranno mai tutte le tele prodotte dopo. Quella parete affrescata è lì e ci dormirei davanti con i piedi che la toccano tutte le notti della mia vita e nemmeno più come artista, né come turista, né come uomo colto, istruito, ignorante, ma solo come essere vivente che crede solo negli esseri viventi, condividendo un po’ di pane, un po’ d’acqua. Beata messa in forma, forma di vita, che non c’è più.

Caro Ermanno, non è da escludere che io sia nato nel secolo sbagliato (quel meraviglioso 1958 di un secolo infernale), ma nessun artista contemporaneo, compreso il sottoscritto, può restituirmi alcunché: il più piccolo indizio sull’eventualità di una messa in forma odierna. Forse non è nemmeno da escludere che noi si debba ancora nascere, o che siamo nati, semplicemente, già morti, in sovrappiù, utilmente inutili nella nostra odierna fantasmagoria.

Un disperato tentativo di “messa in forma” per un nuovo linguaggio è rappresentato da un enorme quadro di Novelli che ho visto alla Biennale di Venezia qualche anno fa, nel 1968 … qualche anno fa? Ma tu nell’estate del 1968 avevi solo dieci anni e non eri neppure a Venezia, ma a Milano … Io quel quadro enorme, pare di tre metri per sette, l’ho “certamente sognato durante una stupenda notte”, ma non so più quando. Lo stesso Novelli lo distruggerà. Si intitolava “Per navigare più oltre”. E certamente il tentativo più incredibile che sia stato fatto in tutti questi anni; del resto, morto Novelli, morto tutto. Vorrei tanto essere ancora davanti a quell’esperimento visivo, ma non è più possibile.

Meglio alla COOP che al MoMa. Meglio vagare settimanalmente alla COOP che in un museo, molto meglio spingere un carrello con la spesa, deambulando con incertezza, che entrare in un museo. Sono entrambi necessari, ma io preferisco la COOP.

Caro Ermanno, io credo che l’opera non debba più attendere di essere accompagnata fuori, perché non c’è più un fuori, tutto è fuori e tutto è dentro, senza soluzione di continuità e la prospettiva relazionale è già la nostra vita, con i suoi eventi che ci scuotono. Non esiste più un fuori, esiste solo uno stare a cielo aperto, semivestiti, seminudi, totalmente esposti e legatissimi senza più un fuori. Però, Ermanno, non è poi così male questa dimensione senza un dentro e senza un fuori, sospesi come in una rappresentazione eterna, tutti intrappolati come in un sogno senza alternative, da vivere e combattere come viene.

La messa in forma per un artista è un processo davvero irrinunciabile, intimo o collettivo, è comunque un gesto con cui ci si abbandona ad un’ansia di salvezza, di creatività o di follia, anche solo di riscatto, consumato nella nostra solitudine o inclusività che sia, o anche solo nella compulsione all’apparire. Però non c’è più un fuori e non c’è più un dentro e ciò ci rende imbarazzati, spaventati, ansiosi o intraprendenti, pure fiduciosi; ma anche ciechi, intrappolati, forse morti senza poterlo credere.

Mi abbandono al flusso e alla dolce follia che alimenta il mio gesto, che sostiene la mia forma, quella forma che mi ignora, che non mi chiede più nulla, anche se cerchiamo entrambi, io e la forma, di entrare in contatto a tutti i costi. Sono proprio dei bei momenti quelli davanti alla tela del nostro mondo, senza più un fuori. Anche nello “Sguardo dal di fuori” (ti ricordi Ermanno? bei ricordi, ottime letture) non c’è mai stato un fuori.

Eppure non sono mai stato più felice di ora, nonostante tutto, a metter mano alla “messa in forma” di cui parli con giustificata apprensione. La messa in forma di una figura umana che tenta ancora di farsi vedere dal suo spazio, che era anche il nostro; dal suo vuoto, che era anche il nostro. Una figura, la messa in forma, che teme il proprio smarrimento come noi, che vuol farsi vedere ancora per qualche metro, prima che tutto finisca, pur sapendo che tutto è già finito. Ma tutto è finito? Credo di si, almeno credo. Ma credi davvero che finirà tutto? Questo è poco ma sicuro. Almeno credo. Ma chissà cosa sappiamo veramente, io e la forma, camminando assieme fra la nostra “velocità” e la nostra “insignificanza”.

Lo studiolo dove dipingo

aprile 2021

 

Caro Ermanno,

voglio descriverti il mio studiolo 5x3 dove dipingo, dirti perché riesco a dipingere al suo interno. E’ un luogo luminoso, il sole entra dal primo mattino fino al tardo pomeriggio e alla mia età la luce naturale è uno dei beni più preziosi per dipingere, o anche solo per pensare il dipingere. Lavoro a un tavolo a ridosso di una parete bianca, piastrellata e con l’ausilio di una tavola di legno, sulla quale applico la tela, dipingo sia seduto che in piedi. Nel corso degli anni ho costruito una valigetta di legno per tenere dentro tutto: pochi tubetti di colori ad olio (riesco a non finirli mai), tre pennelli piccoli e piatti, qualche straccio, una spatola, una decina di matite (eterne), puntine, due squadrette, una forbice, un paio di guanti irrigiditi dal colore, una scodella di vetro per l’olio di lino, due pennelli induriti che non uso da anni. Quando finisco di dipingere ripongo tutto nella valigetta e imbosco la tela lontano dallo sguardo. Trascorro i pomeriggi, poche ore, mezz’ora, qualche minuto a questa postazione, davanti al quadrato della tela; alle mie spalle il lavandino e la lavatrice con tutti i pensili, forno, fornelli e frigorifero. Il sole entra dalla mia sinistra.

 

Il mio studiolo è la cucina. La cucina, nell’appartamento in cui vivo con Patrizia, è lo studiolo. E’ lo studio più giusto che abbia mai avuto e riesco a dialogare con i miei quadri indisturbato. Il tempo che conta è esclusivamente lo spazio del mio corpo che fa corpo con la tela. Sul lato fornelli ci sono delle foto appese. Una, a me molto cara, delle Grigne e del Resegone, scattata dalla periferia nord di Milano; il Ritratto di Vollard di Picasso; alcune opere di Robert Motherwell, con una sua immagine di spalle mentre dipinge; il poster di una mostra di Osvaldo Licini; la Pietà Rondanini; John Cage; Primo Levi; Pier Paolo Pasolini; Zeno Birolli; Liliana Segre. C’è anche un breve testo del giovane Gastone Novelli, scritto dal carcere di Regina Coeli.

 

E’ qui che continua a morire il mio amore per la pittura, per questo gesto insopprimibile, ma inutile, che si arresta in quei miei corpi un po’ raffazzonati, attesi da tantissimi anni. Mi sento in un antico cantiere che da sempre svanisce dentro di noi. Ben distante da distrazioni e speculazioni, non ho più la pretesa di sapere perché io dipinga. Tutto finirà e credo che la pittura mi dia solo un po’ di coraggio.

 

Nello studiolo, immerso in un fiducioso dialogo con l’opera, cerco di incontrare il volto stesso del dipinto. Non appendo niente, non viene appeso nulla. Per me, del resto, anche appendere un quadro in pubblico ha sempre rappresentato un gesto privo di dignità. Dopo svariati secoli dipingo ancora un corpo, vivo e morto, sospeso nella tela, sorretto dal proprio vuoto, che mi dica se è ancora plausibile essere lì, ma esso non me lo dice. E’ ancora possibile crederci? No, non lo è più e con l’età, se posso, cerco di crederci sempre meno.

 

E’ per questo che provo ancora a dipingere, libero e deresponsabilizzato dalla pittura stessa, dal suo vuoto, riuscendo a farlo in questa cucina, studiolo, cella. Dalla porta-finestra di questo spazio che dà su un balcone, ogni giorno vedo la Terra e quel che è certo è che non vi farò più ritorno.

 

Un saluto a te e agli amici.